L'angolo adatto per nani, ballerine, cantanti, troie, alcolizzati e illusi. Ovviamente qui nulla è serio...se sei dei nostri...benvenuto, entra pure

mercoledì, dicembre 29, 2010

Quattro passi

Non potendo portare fuori il bicchiere in vetro, ho optato per un bicchiere in plastica.
Pago il whisky appena bevuto, ne prendo un secondo in un bicchiere di plastica e una birra in bottiglia, non sia mai che mi venga sete camminando.
La cena appena terminata è stata bella, non tanto per le cose dette, il cibo o il vino.
No. E' stata bella per la proiezione continua di ricordi e di immagini sconnesse sul futuro, intervallati dalla realtà, ovvero dai pianti di una bambina di 11 mesi. Tutto questo dopo quasi due anni in cui non ci si vedeva e chissà quanti ne passeranno ancora prima della prossima volta.
Che poi si fa presto a dire che si resta sempre uguali, ma non è così.
I discorsi portavano sempre a quello, a quei noi, alle sbronze a 15 anni e le figure immani,
ai nostri nonni amici e al perchè nonostante tutto ci manteniamo bene.
Uscito da quella casa il carico di ricordi era troppo pesante per portarlo a letto.
Ci voleva qualcosa da bere e quattro passi tra quelle mura antiche che ne han viste tante e spero tante ne vedranno.
Il bar è sempre lì, anzì a dire il vero nei paesini i bar sono come le Chiese, ce n'è uno ogni 30 o 40 metri. Io vado nel mio bar, cioè dove andavo sempre.
Ovviamente la gestione non è più la stessa e se posso fare il vecchio rompi cazzo, è peggiorata.
Qui il primo whisky e il secondo e la birra da portare via.
Al banco invece che le solite faccie, orde di ragazzini in preda a chupiti e coca cole.
I quattro passi diventano un'ora buona di camminata strana, con il freddo e gli occhi lucidi. La testa sempre in cerca di un angolo o una finestra che ricordassero qualcosa o qualcuno.
I posti di mio nonno, quelli dove scappavo da mia nonna per non prendere gli schiaffi.
La casa dei miei nonni, quella che era la casa dei miei nonni, è chiusa, vuota, disabitata.
Sembra dormire in una notte fredda.
La vedo scendendo dalla discesa che da piccolo mi sembrava una montagna. Non è così ripida e tanto meno lunga, però ne è passato di tempo.
Vedo quel cortile, il muro contro cui giocavo a pallone, i posti dove mi nascondevo...le distanze mi sembrano tutte più piccole ora a quasi trent'anni.
E' quasi l'una, poco mi importa, mi siedo sui gradini di casa, della "mia" casa, e osservo.
Tutto come prima, tutto quasi come prima.
Anche oggi guardando la piazzetta da dove son seduto so che domani non dovrò andare a scuola. Respiro l'aria che era di mia nonna e di mio nonno e penso che quando hai quindici anni non sai come stanno le cose, ma quando ne hai quasi trenta, cambiano le prospettive.
Non di troppo forse, ma cambiano.

venerdì, dicembre 24, 2010

La protesta immobile di Gino. Professione pesce rosso in pensione.

Il pericolo dell'immobilismo era quello e tu lo sapevi.
Stare fermi, senza fare nemmeno il minimo sforzo di respirare non è concesso, non ti puoi distrarre mai, neppure quando sei stanco.
Non ti è concesso nemmeno aver paura o fermarti a guardarti allo specchio.
Fermo immobile come se tutto non ci fosse, in una foto scattata poco prima, in un quadro realista o nella mente ferma di qualche avventato avventore. Ma mai e poi mai nel reale.
Star fermi e immobili senza ricordarsi come fare a nuotare, a mangiare e a fissare le pareti.
Che poi pareti non sono, viste da una sfera che occulta gli angoli e mostra tutto ovalizzato.
Un mondo tutto tondo fatto a vasca.
Strutturalmente il tuo immobilismo sarebbe stato un'offesa al nostro girarti attorno o forse la fine di un incubo che non ricordi nemmeno di aver mai iniziato a sognare.
Perchè gli incubi son comunque sogni e questo tu lo sapevi.
Poi fissando quel vuoto ho capito la vendetta lanciata al contenuto, al contenitore e al contesto.
Senza mezze parole un grido sferrato senza voce per la gioia di chi ora sa che sei in acque sicure.
La vera protesta di chi non ce la fa più a stare in movimento è fissare un punto sul soffitto e stare fermi, pensando all'incubo iniziato e di cui non ricordi il momento in cui hai iniziato a sognarlo.
Ma fino a poco fa sapevi che gli incubi si sognano come i sogni migliori, si trovano sugli stessi scaffali del supermercato. Solo che i sogni te li vendono anche scontati, in offerta speciale o in mono porzione da scaldare nel microonde.
L'incubo invece, quello è tutto tuo e può durare una vita intera.
Allora ho colto il tuo grido disperato, nei giorni del loro Santo Natale abbandoni i movimenti consumistici e nuoti verso altri lidi, con un sogno in testa di cui non sai la fine ma hai presente l'inizio. Eri fermo e immobile.
La prossima volta che girerai ancora in tondo spero che un pensiero me lo dedicherai.

Ora per un minuto mi fermo e fisso sognante il soffitto.

mercoledì, dicembre 22, 2010

In giro a cercare il banale

Sono uscito a prendere aria, per la testa o per le idee, non so bene.
Troppo buona questa sensazione, certo non troppo per una mozione di fiducia a me stesso.
Analitico pezzo di merda, analizza le feci su questa terra.

Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.

Ero in giro tra le vie, non ho visto niente e non ho trovat nessuno. Solo freddo e rabbia, solo un cane con al guinzaglio un padrone. Freddo sì, quello lo ricordo e poi niente.
A un tratto riconosco una strada che non però non c'entra un cazzo.
Penso a quanto possano soffrire i pezzi di carne nel congelatore, al freddo. Io pezzo di carne in mezzo a una strada, al freddo.

L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.


Cerco e ricerco i passi che mi hanno portato qui, da un lato palazzi anonimi e vecchie forme d'arte, dall'altra un lento corso d'acqua. Calmo e rassicurante. In mezzo a loro passano auto veloci come idee che non si innestano nel cervello.
Vanno veloci e mi fa male la testa, non riesco ad afferrarne neppure una. Respiro a fondo ma, cazzo, la puzza mi annebbia ancora di più la mente. Forse è il momento di gridare.

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

Trovo una scia e la seguo, passo passo ritrovo tutti i miei passi, me li ricordo tutti, li riconosco. Riavvolgo anche il nastro dei pensieri in modo da non cancellarli, ma per registrarci sopra quelli nuovi ed essere sempre fresco.
Il freddo mi annienta ogni voglia, l'aria condensa i miei pensieri e si formano nuvoloni carichi di acqua e a me l'acqua mi rilassa.

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Arrivo stanco da dove son partito, eppure sono passati soltanto 10 minuti. Il freddo fa compagnia ai miei sensi di colpa, la mia fiducia affidata a un cieco sta cercando di trovare la via d'uscita. Mi fermo in un angolo e non trovo scuse, vorrei piangere ma si forman soltanto ghiaccioli sotto gli occhi, allora prova a pisciare in un angolo senza che nessuno mi veda. Per un'altra fottutissima volta sono uscito e tutto ciò che ho riportato a casa è il banale.

Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.
La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

domenica, dicembre 19, 2010

Noi

Noi ci trovavamo ai giardinetti al pomeriggio, dopo la scuola e il suo tempo pieno che lasciava spazi interminabili alla fantasia.
La focaccia non era sempre buona, anzi spesso non lo era. Dipendeva dal panettiere, dalla strada che la nonna aveva fatto per arrivare a scuola, ma secondo me spesso e volentieri, anche dal tempo. Poco importa la focaccia o il succo di frutta ed il thè freddo. Bere e mangiare è sempre stato marginale a quei tempi, per noi.
Togliere la felpa era la prima cosa importante di quelle giornate, la seconda era prendere il pallone dal sacchetto di plastica. La terza, il goal.

Noi abbiamo continuato a trovarci al parco, nel dopo nulla che attingeva dalla fantasia il motivo per non stare a letto tutto il pomeriggio.
La pizza e le patatine erano importanti soltanto per accompagnare la birra.
Le birre venivano prese al supermercato di fronte al parco. Abbiamo attraversato indenni la moda delle lattine per poi passare al periodo nero delle birre da 66cl, aperte nei modi più improbabili. Solo mia madre sa quante chiavi di casa posso aver rotto.
Mai una sola birra, sempre almeno tre e sopratutto sempre in compagnia.
Mai soli e mai soltanto gli stessi discorsi. I temi forse erano sempre gli stessi, cioè il tema eravamo noi nelle nostre declinazioni.
Noi e le ragazze, noi e il calcio, noi e la vita, noi e la paura.

Noi ora non andiamo più al parco, ma siamo sempre noi.
Senza felpe e sacchetti di plastica, giocheremmo per ore senza fermarci, con la pioggia e con il sole. Ne sono certo, ne sono quasi certo. Prenderemmo per seri i calci negli stinchi e le spallate, ci manderemmo a "fare in culo" perchè "sei una testa di cazzo", ma potremmo anche star seduti e dire le stesse cose di ieri. Con le stesse birre e gli stessi sguardi persi dietro a un autobus che passa, a qualche culo o alle foglie che cadono. Perchè oggi son quasi trenta e ieri eran venti, ma la trama è sempre quella.
Noi e le ragazze, noi e il calcio, noi e i pochi soldi, noi e la vita, noi e la paura.

Perchè noi non saremo mai quelli che entrano nei libri di storia o trovano posto negli scaffali delle librerie. Quelli che quando c'è una festa sono gli ultimi ad essere invitati ma anche gli ultimi ad uscire. Siamo ancora quelli che si commuovono per un regalo, una canzone o una coppa alzata.
Abbiamo ancora qualche sogno nel cassetto, sotto qualche paio di calzini spaiati che han sostituito il Guerin Sportivo e i giornaletti porno di ieri.
Magari non avremo più nessuna panchina sotto il culo per dirci le nostre cose, non vedremo più i nostri consigli o dubbi o sbadigli farsi nuvole per il freddo o l'umidità, però quelle parole le abbiamo dentro e forse in qualche modo usciranno fuori insieme alla nostra anima.
Quando non lo so, il come nemmeno ma forse conosco il posto.
Non saranno le guerre o le malattie, non saranno nemmeno le ansie o le minacce.
Saremo sempre noi e le ragazze, noi e il calcio, noi e i pochi soldi, noi e la vita.
Noi e la paura.

martedì, dicembre 14, 2010

Nella stanza al buio.

Le luci colorate nella notte sono belle.
Le luci colorate illuminano l'anima, la stanza vuota. Il buio in cui siamo immersi ha confini immensi e spazi interminabili.
Le luci colorate sono belle soltanto perchè intorno non c'è nulla. Nemmeno il ricordo di un tempo andato o il sapore di momenti senza storia.
Intanto il Natale arriva con il carico di sorrisi e finti auguri, carte colorate e occhi luccicanti.
Ma le luci colorate le riconosci soltanto al buio, quando tutto intorno non ha senso.
Di giorno o immerse in vetrine luccicanti non hanno gioia, non hanno luce, non ti danno profondità. Con il Natale sempre più vicino, la camicia inamidata e la candela per il desiderio inespresso nell'anno vecchio stretta in mano andiamo a passi lenti sulla strada senza sapere dove ci fermeremo a pensare o a guardare i bambini giocare.
Fermo nella stanza buia penso ai movimenti che farei.
Pezzi di cartone bruciano nel camino, come vorrei tornare bambino almeno per una sera e guardare la finestra che dava sull'orto, così piccolo da sembrarmi immenso.
Fuori buio, la mia immagine riflessa sul vetro. Occhio per occhio e tutto era mio anche il buio. Chissà cosa ci sarebbe stato il giorno dopo, ma quella sera, forse solo per quella notte, avrei visto le luminarie accese come scie della speranza.
Le luci colorate disegnano immagini senza senso, come azioni quotidiane. La fiducia che si ha nelle cose, invece, fa immaginare disegni irrealizzabili.
Il Natale quando arriva cancella i brutti propositi portando i lumi della speranza in lunghe processioni, dentro Chiese piene di credenti e finti santi.
Le luci colorate che non illuminano la stanza, mi danno un segno di riconoscimento, un punto lontano, un segno sfuocato. Posso arrivare fin là.
Poco importa se lontano sento bombe a mano scoppiare o se non azzecco una cinquina da quattro anni. Sono solo le apparenze, ciò che è certo è che le luci colorate nella notte sono belle.

mercoledì, dicembre 08, 2010

La terra trema

Se un farfalla batte le ali a Milano può scatenare un terremoto in Brianza.
E' lo scaturire sano della concatenazione degli eventi.
Per questo oggi pomeriggio mi sono fatto la barba, per causare delle conseguenze.
Non tanto sulla mia epidermide o sul mio look, anche se perdere 5 anni con alcuni sapienti colpi di lametta è una gran soddisfazione. In periodo di ritocchi e silicone poi ancora di più.
Mi sono favorevolmente accorto che la terra trema, eccome.
Basta pensare a cosa possa generare un giornalista che pubblica notizie scottanti su un sito. Tutta la polizia mondiale che si mette alla caccia di uno che si è rifiutato di scopare col preservativo.
Ora siamo tutti sotto controllo.
Così penso che Benedetto XVI ha detto che in alcuni casi l'uso del preservativo è accettabile e penso anche che ogni tanto stare zitti sarebbe utile. A meno che non si riferisse al giornalista in questione. Allora la terra trema davvero e non solo per un preservativo rotto.
Così mi sono deciso a usare anche il dopobarba pensando a come metterlo in faccia.
Parto dal mento o dalle guance? Mi schiaffeggio o massaggio?
Ora penso che tutto sia importante, anche come mi gratto il pacco o come allaccio le scarpe.
Come mi metto le mutande. E se non le mettessi proprio?
Tutto così fondamentale. Da come mi sono messo il dopo barba ho appreso che ho generato l'ennesima caccia alle streghe in un paese Grande Fratello dipendente. L'ennesimo maghrebino accusato di esser colpevole di un qualcosa che non ha fatto. L'ennesimo rincorrere di telecamere e la presa per il culo della dignità. Tutto tremava dandomi il voltastomaco, come essere sul Bruco Verde avendo mangiato una scatola di MonCheri.
Ho deciso allora di togliere il dopo barba, ma mi sono fatto assalire dal dubbio. Mi lavo la faccia o lo levo energicamente sfregandomi con un asciugamano? L'ansia da prestazione mi assale e decido prima di bere un bicchiere d'acqua. Freddo o temperatura ambiente? Anche qui però trema tutto perchè a breve anche quest'acqua che penso essere di tutti potrebbe essere privatizzata. Però non posso sempre bere birra. La mia birra.
Decido per il sorso d'acqua fredda e per l'asciugamano.
Mi guardo un attimo intorno, non è successo niente. Allora lo sguardo mi va sulla prima pagina di un giornale quotidiano nazionale. Manca poco al 14 dicembre, nemmeno fosse il mio compleanno o il tuo Natale, ma tutti lo attendono con ansia e frenesia. Fiducia o sfiducia, la terra non trema, ma la credibilità di qualcuno sì.
Troppi interessi forse, la farfalla non riuscirà a far granchè in questo caso. Leggo che un voto, un Sì o un NO, viene valutato intorno ai 500mila euro e allora penso a mio nonno e al culo che s'è fatto per non guadagnare mai quei soldi. Soldi sporchi come le mani che li prenderanno.
A questo punto mi sono stancato ed ho pensato che una bella cagata avrebbe causato un terromoto, un'inondazione o altro sul Parlamento. Magari tra qualche giorno...Mi sono concentrato bene e fatto coraggio. Ora aspetto il lento susseguirsi delle conseguenze.
Non posso farci niente, I'm a dreamer but I'm not the only one.

mercoledì, dicembre 01, 2010

La finestra

Da casa mia si vedeva un bel tramonto.
Addirittura vedevo il Duomo e la Madonnina che ammiccava maliziosa.
Da casa mia si vedeva...poi hanno costruito palazzi.
Da casa mia non si vede più niente.
All'inizio avevo paura. Ero triste e avevo paura.
Poi mi sono abituato. Equilibrio forse.
Si deve sempre cercare il giusto equilibrio.
Oppure ho imparato a capire che non mi devo interessare alle apparenze
ed ho imparato a osservare ciò che voglio.
Ora che vivo a piano terra tengo le finestre sempre chiuse.
Non vedrei nulla di bello se le tenessi aperte ed ho imparato a guardare
lontano. Oltre il mio naso, senza fermarmi all'apparenza.
Poco oltre al cartello luminoso con la scritta FANCULO.

lunedì, novembre 29, 2010

Cercherò su di me

Cercherò su di me quelle risposte non date. Che non mi vengono date.
Partendo dai piedi proverò a capire i passi fatti, le circonvallazioni percorse dietro a locali o parlando coi conducenti. Dalle unghie rotte sui campi di periferia, per capire cosa mi resta di un sogno iniziato a sei anni, con un pallone e poche speranze.
Non sono belli, ma sono tutta la strada che ho fatto. Sono tutta la strada che sono riuscito a fare, senza precauzioni o passaggi filtrati da amici preoccupati.
La scia lasciata dalle mie camminate non è sempre dritta e lascia sempre il dubbio vivo nella mente, che io non sappia mai dove andare. Ma la parola MAI ha un peso troppo grande.
Cercherò su di me quei segni non avuti.
Salendo sino alle ginocchia che ormai cadono a pezzi. Articolazioni arrugginite in poco tempo, cariche del peso del corpo, delle botte e delle sere saltate per arrivare prima al giorno dopo.
Mi direbbero di operazioni andate a buon fine, mi accuserebbero di continuare a provarci anche con un ginocchio senza un legamento. Non saprei che rispondergli se non che quando vuoi il dolore non lo senti. Quando vuoi.
Cercherò su di me le cicatrici lasciate da altri su altri corpi. Perchè in fondo si vive anche sulle vite costruite da chi non sei tu.
Chiedendo a un fegato di buttare fuori la bile e tornare ad incazzarsi come prima. Come quando fuori piove. Le cene in ristoranti improbabili passate e dirsi quanto non può essere così, ieri come oggi, prima come dopo.
Chiedendo a un cuore di pompare sempre di più, perchè quando vuoi sai buttarlo oltre quelle mura con cui ti opprimi la mente. Anche se sai che non hai qualità, ma riesci a simularle. In altre forme, in altri colori, con la stessa resa.
Cercherò su di me la voglia di andare oltre il padrone, il padronato e la commozione.
Chiedendo alle mia braccia, alla mia schiena e al mio petto di farsi forza e tirare su il palazzo che è nella mia testa, chiuso tra schizzi di inchiostro, ricordi e qualche idea.
Anche quando la stanchezza ti fa dire "chi me lo fa fare" o per scaricare tensioni prendendo a bottigliate i fantasmi nella testa.
Cercherò su di me pezzi di altre persone, di cose che non ho vissuto, di storie che non ho scritto.
Chiedendo ai miei occhi di vedere un pò più in là, oltre ai miei piedi e al mio io. Oltre alla strada illuminata dal lampione. Cancellando l'egocentrismo indotto che ha una causa ma non dà nessun beneficio.
Portando i miei occhi a piangere ogni volta che lo ritengo opportuno, senza vergogna degli altri occhi che potrebbero giudicare. Voglio vedere tutto e quello che non posso vedere, voglio immaginarlo, leggerlo, scriverlo. Anche tenendoli chiusi.
Cercherò su di me. Punto.
Chiedendo alla mi testa di essere meno schierata e al mio pensiero di essere meno presente. Perdendomi in discorsi fatti in serate sbagliate, camminando all'indietro o correndo sul posto.
Girando le parole si possono cambiare i significati e allo stesso tempo non dire nulla. Anche senza stare in silenzio. Forse mi sono soltanto perso in un labirinto con troppe vie d'uscita, come un giro di chitarra in un pezzo che dal country sfocia in una ballata rock.
Cercherò su di me, già.

martedì, novembre 23, 2010

Ho ruttato a metà il nome di D**

Tra una cosa e l'altra c'è modo di vedere quello che non c'è.
Così è per questo che ti credi finito, ti senti sfinito e guardi l'infinito.
Credo che avrei potuto fare una fine migliore ma sarei dovuto partire da un inizio migliore.
Credo che le cose vadano in maniera direttamente proporzionale nella maggior parte della cose. Quelle in cui non va così non voglio nemmeno immaginarle.
Credo che se riuscissi a credere un pò di più in quello che non c'è avrei più fiducia in Dio e anche in me stesso. Nessun accostamento sia chiaro, io bevo, bestemmio e non ho santi in Paradiso.
Se guardo attentamente nella cesta delle cose sporche, oltre a calze spaiate e mutande ben educate, trovo anche anni di corse dietro al niente fatte solo per il gusto di avere il fiatone alla fine, di essersi spinti un pò più in là.
Credo a quella volta in cui mi sono tirato indietro perchè volevo farlo e basta.
Credo a tutti i treni che ho lasciato passare fissando gli occhi di quelli affacciati al finestrino. Se solo mi fossi impegnato di più ora potrei guidarlo io quel treno, ma visto il mio successo con la guida meglio lasciar perdere.
Credo che forse dovrei smetterla di credere anche a queste cose o al poco che credo.
Credo di non ricordare più dov'è quel posto che pensavo fosse definitivo.
Sono convinto che credere e pensare non abbiano motivo di essere accostabili. Due linee che si inseguono all'infinito e si incontrano solo quando l'occhio non arriva più a distinguer l'orizzonte. Perchè anche l'occhio vuole la sua parte.
Credo di ritenere interessante l'immagine di me, con tutti i pregiudizi che ho verso i ragazzi come me. Fintamente appartenenti a qualcosa o a qualcuno.
Credo di parlare a caso il più delle volte e che non sempre vengo ascoltato quando parlo veramente, dopotutto l'unica favola cui ho sempre creduto è quella di Pierino e il lupo.
Nel frigorifero ho tutto quello di cui posso aver bisogno. Birre, vino, carne ossa e altri parti una volta in vita. Scatolette, idee e qualche sguardo furtivo cui non posso dare seguito.
Credo nelle passeggiate senza meta, a una vita senza metà e alla mela tagliata a metà che si unisce ad altra metà. Di colore e gusto diverso, a volte opposto.
Credo nel guardare fuori dalla finestra per vedere il mondo stando fermi e nell'osservare uno schermo diviso a quadratini e non capirci un cazzo.
Credo in ore passate a raccontarsi il passato per vedere il futuro, passando in mezzo al presente. Coniugando tutto nel modo perfetto, sbagliando solo la punteggiatura.
Credo nei figli delle regine e nei figli di puttana, unendola spesso nella stessa figura di donna.
Credo che abbiate perso tempo oggi a leggere queste cose, ma ovviamente dovreste essere arrivati sino in fondo.

mercoledì, novembre 17, 2010

Senza vetro

Il più bel mare della mia vita. Aprendo la finestra di quella che era camera mia, anche se ad ore e per pochi giorni, potevo vederlo.
In lontananza. Non ho mai più visto un mare come quello, nemmeno all'alba, nemmeno in giorni di pioggia o di calma apparente. Credo di essermelo meritato e basta, ma non so il perchè, sono passati troppi anni oramai.
La calma data dalle prime luci di un mattino nato presto, dalle ceneri della sera prima, senza esser passato nel letto di nessuno, col cuscino ancora intatto dal passaggio della donna delle pulizie. Chi l'ha detto che alle 6 meno venti del mattino il caffè sia meglio di una birra fredda?
E' solo questione di abitudine.
Una stanza non mia, un letto non mio, una finestra non mia. Amici a condividere gli odori.
Però ciò che è intorno è anche mio, partendo dall'aria che respiro sino al mare, con tutto quello che ci sta in mezzo. Fino al mare appunto.
Perchè tutto il Mondo sia meritevole di essere, senza necessità o aiuti.
Quella calma piatta del mare d'inverno, anche se è Agosto e il sole comincia a dare cenni di esserci, educatamente ma con insistenza.
Guardare fermi fuori dalla finestra, una leggera brezza per restare svegli, sullo sfondo qualcuno che russa, altri stanno decidendo se dormire o restare vigili ad attendere il sole.
Un sorso di birra per calcolare la lunghezza del pensiero, per sentire quanto tempo serve per esser là, in mezzo al mare. Il mio fiato ha l'aroma della birra bevuta in serata, ma fa lo stesso una piccola nuvola quando fuoriesce dalla bocca, forse per il freddo forse per l'umidità.
Da piccolo mi piaceva pensare che quelle nuvolette fossero le parole, il peso delle parole, di un "ciao" o di "stai, ti prego".
Anche il respiro è meno affannato di quanto potessi pensare.
Dalla finestra vedo il mare piatto e il cielo calmo e mi rilasso pensando che forse un giorno anche io sarò così. Insieme sembrano perdersi nell'infinito sino a un punto in cui non arriverò mai nemmeno ad occhi chiusi.
La linea che divide il cielo e il mare non è mai stata così netta come in quella mattina.
In quel momento avrei voluto piangere credendo di poter scrivere di tutto senza sapere niente.

venerdì, novembre 12, 2010

Il ritmo è sempre lo stesso

Vorrei che il Natale quest’anno fosse caldo. Senza giri di parole e sorrisi di circostanza, senza mezze misure. Però caldo. Perché caldo non vuol dire soltanto calore temporale, sole o mare o tutto ciò che ci sta attorno. No, di quello non mi frega niente.
Lo voglio caldo come il letto quando mi svegliavo da bambino.
Voglio togliermi il pensiero di domani, di quando guardi il cielo e non ci senti niente, se non il clacson delle macchine o la suoneria dei cellulari.
Cielo grigio chiama amore infame. Risponde il niente.
Lunghi giri di ritorni e andate senza ritorni e ritorni dal niente, nel vortice complesso di un completamento lento. La quotidianità, il parente, il viso amico, lo specchio.
Dove sono quando guardo fuori dal finestrino? Ora mi sono perso in queste strade, cerco la scia di qualche tram, ma non riconosco nessun volto.
Forse un guidatore, a volte un passante distratto, ma nessuno riconosce me.
Attimo di smarrimento, mi rimetto in ordine. E’ Natale. Voglio il caldo.
In lontananza vedo dei vecchi avvicinarsi, l’ombra curva e il passo lento. Sono i miei nonni, sono proprio loro, sono qui per il Natale…più si avvicinano più cresce l’emozione, più si avvicinano più sale la frustrazione. Non possono essere loro, loro sono morti anni fa.
Senza dirmi il motivo, se ne sono andati insieme al calore di cui avevo bisogno.
Eccomi lì, fermo a metà via, da una parte una fermata dei mezzi pubblici che porta chissà dove e dall’altra una coppia di vecchi che non conosco, ma avrei voluto conoscere.
L’indecisione mi porta ad esitare, salgo sopra al primo mezzo disponibile, sguardo basso, rincorro primavere. Guardo fisso dal finestrino, che tengo aperto per rimanere sveglio e non addormentarmi.
Respiro l’aria fredda che schiaffeggia il volto.
In strada accanto ad una rete vedo un padre coi suoi figli intenti a guardare gli aerei che decollano. Quelli che atterrano, quelli fermi. Ricordo quando da bambino andavo al Parco con mio padre e mio nonno, ma non piango, non mi commuovo.
Penso solo alla semplicità delle cose belle, al loro calore.
Scendo e sono in piazza buia di un posto che non so dov’è, cosa sia. Di sicuro non ci sono mai stato, non è casa mia.
Scendo e mi guardo attorno, tutta ha la sua dimensione e sembra continuare a vivere nonostante la mia presenza sia invasiva, fuori luogo.
Tutto ha il suo senso pur con la mia presenza. Ricomincia un vortice nella mia testa.
Non fa caldo, non è Natale, ma io lo voglio caldo lo stesso.

giovedì, novembre 11, 2010

La funzione del ricalcolo

E’ la dignità di un vecchio il punto di arrivo. Passando dal passeggino alla sedia a rotelle che accompagnerà i miei ultimi giorni. La saggezza del vecchio come guida nel momento del bisogno avanzando ciecamente verso la conquista di qualcosa, anche di un banalissimo stipendio.
Anni di call center, di copia incolla e fotocopie. Ho perso giorni fondamentali della mia vita ascoltando insistente il rumore di una fotocopiatrice, anni ’90, generazione cresciuta nel vuoto più totale. I giovani italiani che non leggono più, i quotidiani che non vendono più.
La crisi della carta stampata non è data da motivazioni ecologiche, ma culturali.
Generazione ai raggi X, sempre appresso ai mille euro, raggiunti a 28 anni e forse persi molto presto. Mi sembrava che non fosse vero. Tutti questi soldi per me? Ma veramente?
Anni ’90 calcolati ancora in lire, perché oggi per noi tutto vale il doppio.
Dal titolo di studio alla proposta lavorativa.
“Apprendi da apprendista e forse tra qualche anno avrai modo di trovare un posto fisso per arrivare al tuo sogno di pensione”.
Apprendi coglione e sogna la pensione.
Tempo di calcoli per arrivare a fine mese, per la spesa del sabato e la cottura del surgelato, stando attenti a non scontrarsi col carrello pieno, si collezionano gratitudini come quando eravamo bambini con le figurine. Ringrazia chi ti fa lavorare, chi ti dà da mangiare, chi ti fa respirare. Non pensare a chi ti fa emozionare. A cosa è emozione.
Pensa, sogna, vivi, desidera una vita in monodose.
Calcola bene le risposte e i tempi di rimozione forzata dal posto in cui ti trovi, tieni sempre libero il tuo spazio. Facendo bene attenzione a non toccare chi ti sta vicino, senza correre il rischio di conoscerlo.
Perché col tempo si riesce sempre a trovare qualcuno in grado di prendere il tuo posto, il tuo tempo e la tua dimensione. Tempo del ricalcolo, per rivedere la posizione da assumere.
Per decidere se vale la pena andare o se non è meglio tornare indietro, che tanto chi ce lo fa fare di rischiare. Ho già la cena pronta e il letto fatto, un lavoro, una donna e il cane mi corre incontro appena mi vede sul vialetto della mia villa privata.
Apprendo fermo il modo in cui muovermi, osservo il movimento del vento tra le foglie, resto rapito dal suo colore, così forte e così trasparente e resto fermo. Senza cambiare modi e posizioni. Come il Natale che sta arrivando, quello che se n’è andato, quello che stiamo vivendo. Sottosopra. Ricalcolo, stop emozionale. Sono pronto per partire senza sapere dove cazzo andare.

**scritto una sera, qualche tempo fa, forse se ne farà qualcosa altrimenti si darà al gatto

venerdì, novembre 05, 2010

Consolatevi del vostro pianto

Mi scordavo ripetutamente che si muore continuamente. Ogni giorno un pò alla volta. Di giorno e nelle notti e a poco a poco che si staccano anche gli ultimi capelli.
Mi dimenticavo quotidianamente di dire le mie preghiere e metter l'anima in pace, pensando che un futuro me lo sarei garantito con un fondo pensione.
Era il 2001 ed ero a Roma, primo maggio, concerto. Tanti i giovani in Piazza e si parlava di una guerra civile ignota, quella che ogni anno porta via mille lavoratori italiani e non, in Italia. Perlomeno questi sono quelli che ci vengono dichiarati.
Quelli che ci vengono detti.
Non ci pensavo allora, non ci pensava mia madre. Non ci avrei mai pensato sino al momento in cui l'avrei vista, così immediata e risolutiva.
Come tutti e non meno di nessun altro, mi sono sempre speso tra i bassi voti a scuola, gli amici, il piacere per le donne e le bevute. Chi potrà mai togliermi i miei momenti, i miei successi e gli insuccessi. Le vacanze, i tanti primi baci e l'abbraccio di chi ti accetta soprattutto per i mille difetti.
Le chiamano morti bianche, come i teli nei quali si è avvolti dentro una bara che non serve a niente, per quelli che riescono a finirci dentro. Le lacrime dei parenti, qualche articolo di giornale, il politico che parla e per me, niente.
Finirono le scuole e come previsto, nessuna voglia di Università o studi privati, volevo i soldi subito, volevo il lavoro quello vero, che nobilita. Come mio padre e mio nonno. Un posto da operaio oggi, carriera sicura nell'azienda del paese domani. Operaio specializzato ora e capo fabbrica domani. Così mi sarei pagato le rate per la macchina nuova, comprato quello che volevo, portato in pizzeria le mie belle senza farle pagare.
Ogni anno i morti sul lavoro sono un inno al cambiamento sociale che non avviene. Precari, muratori, agricoltori, militari, lavoratori a cottimo, portuali, stronzi, negri, italiani...tutti dentro un'invisibile bolla di sapone che sfugge anche alla più precaria forma di giudizio. L'indignazione perenne che non ha mai prodotto nulla, se non parole di conforto per le famiglie. Le altre vittime di tutto questo.
In fabbrica vengo accolto bene dal gruppo, ci sono altri giovani come me ma io sono quello "nuovo" cui insegnare i segreti; i vecchi mi consigliano, scherzano, mi prendono in giro per i miei racconti sulle donne, le ubriacature...come fossi il gioco nuovo, lo scotto dell'ultimo arrivato.
Sanno di chi sono figlio e chi era mio nonno, sanno che di me si potranno fidare.
I capi si vedono poco, gli storici fondatori han dovuto vendere a un'impresa straniera, dicono siamo parte di una multinazionale. Non so bene, lo stipendio arriva, mi basta alle mie piccole cose, le 8 ore, gli straordinari in nero. La fatica si sopporta a fine mese.
Ogni tanto vengono i sindacati a dire che non siamo a norma, vogliono i controlli, ma mi è stato consigliato di lasciarli stare, di non ascoltarli. In fondo non mi rendo conto di cosa stiano dicendo.
L'Italia è un paese sito nel centro dell'Europa. Il Diritto al Lavoro fa parte della Costituzione e il lavoro deve (dovrebbe) essere sicuro. Deve (dovrebbe) essere ben retribuito ma il tasso di crescita delle retribuzioni è inversamente proporzionale alla crescita del costo della vita. I nostri governanti ci consigliano di andare all'estero. Forse è chiedere la normalità è troppo.
I turni sono impegnativi e pesanti, otto ore e strordinari. Servono, mi dico. Per la vacanza in Grecia, per i cerchi in lega della macchina. Servono e basta, cazzo.
Poi quella notte il lampo. Ho visto il volto dei più vecchi preoccupati, nella stanza dove c'erano due colleghi, uno scoppio, fiamme. L'istinto di fuggire, andare via, le gambe che tremano. Poi ho visto padri di famiglia buttarsi dentro senza pensarci per aiutarli, per tirarli fuori. Non ci ho pensato su, mi son buttato dentro e poi niente.
Io sono morto voi siete vivi, non ve ne siete accorti.
Così al mio funerale non voglio partecipare. Lascerò tutti voi vicini, l'un l'altro.
Consolatevi del fatto che non ci sarò, dei vostri pianti, delle mie tante lacune lasciate.
Se lo vuoi sapere il Paradiso non esiste è soltanto un'idiozia di qualche stronzo.
Lascio il tempo alla parole dei soliti benpensanti e il mio ricordo a voi.

Morto 879 di quasi mille, anno solare 2010. Dopo Cristo, ovviamente, il tuo.

martedì, novembre 02, 2010

Magari è il contrario

...se la fine fosse fatta da più puntini di sospensione e se nulla avesse una fine grazie a questi puntini, con la continua ricerca di un qualcosa che non c'è, ma che tu rincorri solo per svegliarti al mattino, per vedere le farfalle volare...
...giro e incontro angoli nascosti che non hanno un senso, un come o un dove. Appena incontro lo specchio le chiedo cosa vuole, appena tocco cibo riprendo le mie forse. Ora tutto ha puntini di sospensione, potrei anche sbagliarmi, ma niente è al punto di cottura se non i miei anni migliori.
Dovrei iniziare a copiare cose fatte da altri o trovare progetti conclusi, non da me. Si pur iniziare da qualcosa...
...forse inseguendo tratti di musiche conosciuti, ecco cosa farò. Inseguo fantasmi musicali ai quali applicare parole a caso, nate dai nostri mille discorsi. Non importa se l'aria la paghi a peso o se le scarpe siano bucate, il riscaldamento è partito, iniziato. Arde. Bruciano i puntini nel loro essere sospesi. Forse andando troverò la musica guida, forse cambiando marciapiede, forse...
...forse dovrei assumere droghe, bere sempre di più, farmi crescere la barba e gridare in faccia ciò che penso. Farmi prendere per folle, un pazzo visionario. Riprendere il progetto del chiosco disperso nel nulla, riprendere le idee, disegnare i contorni. Pitturare il salotto. Ora esco e mi metto a fischiare, se ne ho voglia anche a cantare...

venerdì, ottobre 29, 2010

Scrivo poco per oggi. Punto.

Non capisco la luce, i cicli mestruali e le gonne troppo lunghe.
Capisco quando è quasi basta, l'intolleranza non alimentare e quando annaspare.
Mi cambio una giacca o taglio i capelli.
Penso che si possa andare lo stesso. Poi penso di aver pensato troppo.
Mi aiuto a rialzarmi.
Non capisco i ritorni di immagine e i calcoli, sovrappongo significati.
Voglio insegnare ai bambini, ma non la mia morale, il poco che so.
Fargli capire cosa è giusto, partendo magari dai miei sbagli, senza esaltare altre arti e riempire i discorsi di finte morali. Magari carpendo qualcosa da loro.
Scrivo poco oggi, non sono dell'umore giusto. Non sono triste nè allegro.
Forse deluso da me. E basta. Di sicuro attento a non dire troppo, meno ancora delle solite mezze frasi criptate.
Forse.
Punto.

lunedì, ottobre 25, 2010

Vento

Il diritto di non saper fare niente in un mondo in cui tutti sanno tutto.
Ho visto il rumore del vento cadere dritto in una pozza d'acqua e non alzarsi più. Il riflesso generato era un parto di nuvole pesanti, deciso a cambiare tutto. Gli uccelli roteavano distorti. Confusi. Il risultato delle loro cagate è concime per il cemento.
Non è distrazione la mia, è che non ci capisco più niente.
Dove e come, quando e perchè. Ma sto andando lo stesso.
Non sto piangendo, ma non uso mai l'ombrello, nemmeno quando piove.
Ho visto il colore del vento, cromato e azzurro.
E' caduto dentro una pozza che rifletteva il grigio del cielo. Nuvole sparse cariche di smog.
In fondo un piccolo squarcio di cielo azzurro. Lontano.
Gli uccelli volteggiano alti e si abbassano all'improvviso stando sempre in cerchio, tutti uniti costantemente, quasi annullassero le distanze.
Non sto pensando ad altro, sto pensando come fanno a non scontrarsi.
Non riesco a capire come fare tutto quando non so fare niente.
Il vento scorre rapido tra le piante e disegna scie colorate. Le fronde si scontrano l'una contro l'altra con violenza, confondendo i colori delle foglie, alcune cadono morte, ma gli uccelli continuano il loro giro. Imperturbabili.
Non piove più, il viso è ancora bagnato ma soltanto perchè l'acqua l'ho presa tutta guardando il cielo. Non sto piangendo.

venerdì, ottobre 22, 2010

Notti insonni

Troppo tempo, troppe notti a correre dietro le scie dei tram di Milano. Ne trovi uno in ogni via, dietro ad ogni angolo e vanno lontano, vengono da lontano, con il loro carico di persone, le coppie e una rosa, i pazzi. Controllori senza biglietto e biglietti usati per scrivere pensieri, stronzate.
Milano ha la notte dentro, perché il giorno serve a lavorare, serve a quelli che non hanno fantasia per dar fiato al proprio ego, serve a chi non sa tenere gli occhi chiusi perché ha bisogno della luce artificiale.
Milano la conoscono bene i tram e qualche spazzino che passa a pulire la merda lasciata a dormire sui marciapiedi da qualche passante. Milano soffre in silenzio, di notte.
Non riesco mai a dormire quando vedo un angelo piangere, mi giro e mi rigiro nel mio letto cercando un punto in cui non pensare stando fermo e mi ritrovo sempre a pancia all’aria, fissando quel soffitto bianco, senza luce, senza niente.
Sarà per queste notti insonni che quando sto male mi addormento ubriaco e mi risveglio anestetizzato, con la testa piena di brutti pensieri che non riescono a trovare una via di fuga se non dopo la prima pisciata.
Ma gli angeli non devono piangere se non quando piove, non ne esistono cause valide. Sono i dannati o le puttane a doverne star male.
Rincorro strade tormentate nei ritorni a casa, i soldi per il taxi non ci sono, i soldi per il taxi me li sono bevuti e poi sul taxi non si fanno strani incontri, tutto così organizzato, monodose. Nemmeno il centro massaggi dei cinesi mi darebbe ristoro in quei rientri.
Voglio la mia casa, voglio il mio letto, voglio una birra.
Provo a riprendere i miei passi, ritrovare le mie traiettorie ma inciampo di continuo nella proiezione di me stesso, come se la mia ombra mi facesse lo sgambetto. Sporca puttana traditrice.
Nemmeno cercando aiuto dai binari dei tram trovo una strada utile, confuso dagli scambi, dalle luci delle pensiline e dalle scie colorate.
Troppe notti, troppo tempo passato a dormire anziché cercando un cambiamento, dietro vane motivazioni e morali appannate. Chi l’ha detto che il riposo è dato dal sonno e non dal sognare ad occhi aperti, con il carico di speranze e la consapevolezza che la maggior parte delle cose che fai finisce nel nulla. Riempirlo questo nulla, sarebbe già un gran bel risultato.
Le occhiaie sono il frutto delle esperienze e non del poco sonno. Le rughe invece possiamo cominciare ad attribuirle all’alcol e in fondo quelle donano il giusto fascino.
Quello che meriti.

mercoledì, ottobre 20, 2010

Mai come ieri

Te ne accorgi appena esci dalla pancia di tua madre, oggi voglio essere fine sottolineo pancia e non fica. Dal caldo del liquido amniotico al freddo di una stanza igienizzata.
Certo ieri stavo meglio, al caldo, ovattato, senza pressioni e poi, chi cazzo ha acceso questa luce e cosa sono tutte queste facce?
Sono cose di cui ti rendi conto crescendo, senza arrivare mai a dire che quando c’era Lui si stava meglio. Però, c’è sempre un fottuto però.
Però eri più magro quando avevi vent’anni.
Però eri più leggero quando avevi ventidue anni e la testa andava ancora a cento allora, senza il lavoro, l’affitto, la pancia o la vicina cogliona.
Però avevi i capelli lunghi e la fronte larga e ora te la chiamano stempiatura.
Però le vacanze duravano tre settimane e diciamocelo, erano troppe.
Con quei però hai imparato a convivere, li saluti al mattino appena alzato, ti ci fai anche una birra prima di andare a letto. L’importante è che restino sempre fuori dai tuoi sogni.
Perché quelli sono sempre meglio di oggi. Sono come ieri.
Nei tuoi sogni i però si frantumano nel niente e lasciano la scia a una realtà fatta di visioni e di immaginario. Di contemplazione, approvazione.
Il sublime essere ciò che non si è. Perché poi arriva l’oggi, veloce come la sveglia, come la scritta “posponi” sul tuo cellulare. Che non fa altro che illuderti e spostare di tre minuti i tuoi “però”.
Ieri, quando andavo al parco con mio nonno fermavo tutte le ragazze, belle o brutte che fossero per dir loro da dove venivo, chi ero. Era una lezione insegnatami da mio nonno. Certo, mio nonno era un gran bel paraculo. Ma io, ieri, ero sempre bello e pettinato.
Ieri, non sapevo nemmeno cosa fosse la morale, il senso collettivo, la parola “unione”. Non mi ponevo il problema di dover conversare. Giocavo su un campo infangato e senza un pc che me lo ricordasse costantemente, ero pieno di amici.
Mi accontentavo di poco ieri, anche se non avevo niente. Era ieri, cazzo, e ora sta suonando la mia sveglia. Forse oggi ho sbagliato di nuovo sogno.

**questa cosa l'ho scritta come parte di un "progetto" che come tutte le cose che ho fatto sino ad ora non vedrà mai la luce, forse.

venerdì, ottobre 15, 2010

Per la Milano che non c'è

Va bene, non sai più leggere.
Cercherò di rendere immagine le mie parole anche se mi viene male, anche
se non credo che tutta questa rabbia lo renda possibile.
Mi spiace, ma tu ricorda quanto ti ho amata.
Ero bambino e giocavo nei parchi che come oggi, più o meno, ti coprivano.
Erano i fottuti anni '80, quelli delle "pere", quelli in cui i giardini erano
animati dai bambini di giorno e dai tossici di notte.
Mio nonno, insieme ad altri nonni, tutte le mattine perlustrava i prati in
cerca delle siringhe. Una volta bonificato il terreno iniziavano le nostre corse
dietro a un pallone. Iniziammo così a conoscerci.
Eri aperta, eri quella che qualcuno definì "da bere", craxiana e cocainomane
fino al midollo, ma anche l'unica città davvero internazionale in Italia.
Dove essere diversi era possibile.
Avevi tutto, non mancava niente.
La moda, il calcio, i centri sociali, la Piazza, i nazi, gli operai, i colletti bianchi,
case popolari e ricchezza. Sei stata il '68.
Eri socialista ma puttana. Proletaria e (poi) leghista, borghese e comunista.
Sentivi ancora nell'aria le vecchie canzoni di Nanni Svampa, i vecchi
parlavano milanese e io stesso mi divertivo un mondo a sentire l'odore dei
navigli e dei trani sparsi in città.
Poi sei cambiata, sei scesa in campo con la tua arroganza e con la confusione
che i '90 hanno creato. Hai perso il tuo amante, fuggito in Tunisia anche per
l'averti troppo arricchita. Ti sei trovata sola, lo so.
Ma tutto quel benessere, quel godere che ti ha reso com'eri, chiedeva ancora
soldi e voleva essere ingrossato.
Ti sei venduta al miglior offerente, come la peggior puttana.
Così ti trovo vecchia, rovinata dalla cocaina e senza più la capacità di leggere,
di capire chi ti amava.
Di farti amare.
Sei diventata bigotta e arrogante, moralista e dipendente. Borghese e fascista.
Non sei nessuno adesso per giudicare le mie sbronze o le bestemmie, non
puoi nemmeno darmi lezioni di buonismo. Fai soltanto il gioco opposto.
Hai dato tutto per i soldi, per la fama, diventando attrazione per modaioli e
designer, per aperitivi e passerelle.
Ma ti ricordi quando in Via Savona c'erano le fabbriche e sui navigli le luci
eran sempre fioche. Quando non eri terra per stilisti e disegnatori del nulla
ma davi lavoro a migliaia di famiglie.
Quando dirsi "operaio" a Milano era dignitoso.
Ora no, hai perso tutto. Fucilando chi non è come i tuoi capi, chi non ha
il titolo per poter partecipare alle tue mense e "così sia...".
Continuerò a credere che un giorno tornerai ad esser come prima, senza
trucco vodka e cocaina, ma pane e salame o mal che vada piadina e kebab.
Chissà se preferisci ancora questo alla dignità dei vecchi.

Ti scrivo questo perchè non posso più vederti così. In mano a politici
che si dividono le briciole dell'Expo, mafia e 'ndrangheta ovunque, Cl ad
occupare ogni posto decisionale libero. Polizia ad ogni angolo e la malavita
che fa quello che vuole.
Ok ho scritto troppo e ormai non so nemmeno se mi hai ascoltato, però avrei
ancora tanto da dirti, con la rabbia di chi sa che non cambierà mai un cazzo.

Una volta tuo, S.

giovedì, ottobre 07, 2010

Polvere alla polvere

Bolle di sapone si creano nella testa, come situazioni differenti che formano
momenti, attimi di tempo, tradizioni rubate.
Qui nello stato di nessuno, del torpore addominale.
Lo strato d'acqua che divide la quotidianità dall'oblio, lo stentare stanco dall'
arrancare attento. Apparizioni di vedute nuove e vecchie che si
sovrappongono in un fermo immagine stanco.
Aver trent'anni e sentirne pochi, senza avere il tempo di poter sbagliare e il
peso di non poter dire le cose come stanno. C'è sempre qualcuno più
grande, qualcuno più bravo, qualcuno.
Concentrarsi nell'attimo per non sbagliare nessuna giocata.
Sono sempre stato un bel viso a cattivo gioco, usa e getta.
Sogno da anni di avere un Dio che non uccida, ma faccia selezione senza
distinzioni, senza razze, colori ed età. Qualche volta lo penso nudo, altre
vestito. Altre volte mi penso e mi vedo come non vorrei essere, ma è un
altro discorso. Un discorso da affrontare con un amico armato di un
buon vino.
Perchè lo specchio riflette sempre un'immagine diversa dalla reale, formula
distanze, appanna i contorni, colora gli spazi. Non so bene cosa, ma qualcosa
dei miei nonni me lo porto dietro e qualcosa lo tramanderò.
Tutto ha le stesse forme, oggi come allora. Sono soltanto pezzi del tempo che
si ripropongono nel corpo e nella mente.
C'è un gran sole oggi e mi sta fissando. Voglio guardarlo in faccia anch'io, che
sia chiaro il mio intento di sfida.
Intanto le bolle di sapone riempiono lo spazio, ne ho ovunque.
Non si dica in giro che vive ancora la depressione, basta un solo sorriso e
tutto viene azzerato. Nascosto dietro a un sorriso.
E' per questo che il perdente ride appena arriva a cento, in modo da
ricominciare daccapo a contare, senza senso.
Se solo potessi mi berrei un caffè con Dio, che non si dica che non credo a
priori. Alle favole ho sempre creduto e voglio continuare a farlo.
Con gli occhi di chi si sorprende per le piccole cose, per le bolle di sapone
o per l'illusione di poterci riuscire.
Ma le distese di verde sono sempre più rare e in fondo non sempre si
possono fare delle scelte, a volte sono i fatti a decidere per te oppure i campi
di grano invadono tutto.
Ho conosciuto anche chi dice il contrario, chi porta la croce o bestemmia
dicendo di credere. La scia del tram non è visibile come quella di un aereo
ma molto più affascinante se si hanno diverse ore da perdere e la volontà
di andare sino in fondo alle situazioni, al capolinea delle rette vie.
Però ci sono sempre mille però. Come ad esempio la noia e il fatto che prima
o poi anche le bolle di sapone finiscono.
Ora che finisca anche la musica.

venerdì, ottobre 01, 2010

Parlando di me a me

Non dirmi di messe strane in posti noti, non mi importa niente.
Sarei sicuramente un uomo migliore se sapessi ascoltare oltre le prime dieci
parole. Sembra quasi che ci sia un contatore in me.
Uno, due...dieci. Stop.
Non dirmi di baci lontani o canzoni leggere, ho perso il tempo.
A volte mi perdo dietro le labbra che si muovono vorticose nei racconti di
proprie emozioni. Come se un filtro mi barrasse le orecchie.
Non sono l'uomo adatto a salti indietro con il pensiero, soffro di vertigini.
Non parlarmi dei tuoi amori, i tuoi momenti felici o le tue paure per un
futuro migliore. Non ti seguo, non ci riesco proprio. Scusa.
Se provo a star dietro a certe cose inciampo e cado a terra.
Ma cazzo, prendi pure tutto il tempo che vuoi per le tue ansie, i cattivi
pensieri o la paura dei tuoi errori.
Chi meglio di un fallito potrà capire da dove arrivi e saperti dire dove non
andrai. Lo diceva Proust, forse posso dirlo anch'io, che i momenti che mi
hanno insegnato di più sono quelli in cui stavo male. Perchè riesco ad
ascoltarmi. Ad ascoltare.
Non parlo coi fantasmi e non voglio sentire storie d'amore, storie di crisi,
storie. I romanzi sono abituato a leggerli anche se son passati di moda,
ingialliti e senza storie da raccontare.
Poi li rileggo sinchè non trovo un senso.
Non darmi dell'egoista, posso starti a sentire per tutto il tempo che vuoi,
senza ascoltare e non dirmi ciò che devi dire ma ciò che vuoi.
Quello che senti.
Sarà cinismo, finto snobismo o eccesso di presunzione. Sarà ma non
lo voglio sapere. Sarà che non mi interessa starmi a sentire o mi sembra di
essere pazzo nel darmi consigli da solo.
Dovresti fare questo...anzi meglio questo...arrivando sempre al medesimo
punto sbagliato di non ritorno.
Non dirmi che c'è un senso o che son parole a caso. Magari sarà il pensiero
che avrò rileggendo queste frasi tra qualche anno. Forse.
Quando sarò padre e ascolterò ogni singolo verso di mio figlio.
Ma ora non mi importa, non mi dite di emozioni e tempi che verranno, mi
interessano i tempi andati, un bicchiere di rosso e qualche goccia di pioggia,
che non si vedano le lacrime.

mercoledì, settembre 29, 2010

La finta retorica del tacco a spillo

Lui morì giovane, in tenera età.
L'aria del successo, flash puntato in faccia e nessun senso di pietà.
C'è già chi ci pensa, ma dimmi come potrà essere. Basta non voltare pagina
al calendario per sembrare ancora giovani?
Sto riempiendo il frigo di birra in lattina e ricordi confezionati in porzioni
singole, da consumare caldi in sere invernali.
Così quando verrai a trovarmi sarà tutto come l'ultima volta.
Lui è morto giovane e bello come Dio.
La sua voglia di eccedere è stata anche più forte di lui.
Mi dicono che ho buttato via tutto, ma giuro è ancora tutto in tasca.
Ho solo tolto qualche foto dal muro, ma soltanto perchè mi vergogno di
essere così. Mi isolo spesso e penso a quando si era giovani insieme, amico,
e solo in quei momenti il vento riesce ad essere clemente con me.
Se calcolo quante ore della mia vita non riesco a ricordare per il troppo alcol
e la mancanza di sonno, recupererei un anno intero, minuto più e giorno
meno. Ma non importa.
Perdo capelli in continuazione e mi taglio le unghie sempre più corte perchè
forse un giorno mi serviranno a bruciare gli anni persi.
Lui ha avuto tutto ed è morto senza niente di più.
Lo ricordano in molto e qualcuno me parlava già anni fa.
Mi annoio solo e annoio le farfalle che poi provo a collezionare senza successo
mantenendo il muro spoglio, che non si sa mai.
Non ho ancora ben capito come mi volesse mio padre. Se così o impiegato
in banca. Se così o sposato. Se così e basta. Sarà l'ultima cosa che gli chiederò
un giorno, lontano.
Lui è morto e qualcuno lo porta sulle magliette e in qualche poster rubato
all'incanto.
Poteva avere tutto, ma ha preferito l'eternità.

sabato, settembre 25, 2010

Il brigatista

Dovranno spiegarmi, prima o poi, perchè l'immobilismo della Balena Bianca
non è mai stato visto come reato, ma come strategia.
La strategia per eliminarne uno e arricchirsi in tanti. Senza colpe.
A distanza di anni, di celle e di città girate, dopo processi, morti e morti
ammazzati, tutto resta come era in me, ma fuori è peggiorato.
A poco a poco me ne rendo conto dal mio piccolo osservatorio di 5 metri
quadrati, ma sono sicuro che là fuori voi non ve ne accorgiate.
Forse ne fate già parte.
Avevo 20anni, un lavoro da operaio e un Mondo intorno che non mi andava.
Padroni della mia vita e non solo del mio lavoro, un movimento che mi
aspettava e un cambio repentino. Assoluto.
Quanti di voi metterebbero la propria identità in cambio di un ideale,
buttare via tutto, nome e cognome, salutare per l'ultima volta vostra madre
e partire per una guerra?
Sì perchè non sentirete mai nessun brigatista dire di non esser stato in
guerra. Una guerra diversa da quella che oggi fanno i vostri politici.
Una guerra sociale, che prevedeva morti mirate.
Sbagliate di sicuro. Per noi erano giuste. Noi prigionieri politici.
Non cerco il vostro consenso, anzi sono anni che vivo del dissenso altrui e
mi sono convinto che qualcosa l'abbiamo sbagliato.
Come se ci avessero guidato dall'alto, come se fossimo in mano a un
burattinaio che tirava i fili. Il Grande Vecchio.
Dovranno un giorno accendere i fari delle loro automobili anche su Bologna
e una strategia del terrore non certo rossa o nera, ma di Stato.
Poi sarà Milano, poi ancora Brescia.
Per ora pago i miei anni, così come ho pagato caro tutti i miei errori.
Così come l'hanno fatto i miei compagni, quasi tutti, di qualsiasi sigla fossero
e da qualsiasi città provenissero.
Dalla rossa Emilia, dall'operaia Milano o dalla Torino fatta in serie, dall'isolata
Sardegna, dalla Roma Ladrona e dal nord est nero, che ora si tinge di verde,
ma sempre fascista resta.
Non faccio retorica, mi chiedo solo come sono finiti i movimenti di Reggio
Calabria e da chi fossero appoggiati. Perchè la giustizia si è mossa in un
senso solo. Chiedete a De Pedis chi stava con chi in quella Roma cattolica e
politica, che non trattava per Moro e già si spartiva la sua eredità.
Oggi da qui vedo solo un'Italia depressa, contratta su sè stessa, in cui gli
studenti non lottano e gli operai sono schiacciati.
Ma tutto è fermo, senza luce. Tutto è deserto.
Così guardando da questa finestra con il cielo che è sempre lo stesso, torno
al pensiero iniziale, alla mia casa col giardino, la mia carta d'identità e tutto
quello che mi sono perso rincorrendo un sogno che ora non interessa
più a nessuno.
Suicidio intellettuale, prigioniero politico.

mercoledì, settembre 22, 2010

Il gruppo spalla non fa mai il soundcheck come vorrebbe

Ci sono giorni di inutili idee da cui forse è facile aspettarsi il meglio e restarne
delusi.
Ci sono scambi di sguardi e attenzioni che non ti aspetti e magari non vuoi.
Quando faccio la lavatrice prendo tutti i pezzi sporchi che ho. Dalle maglie
utilizzate una sola volta ai pezzi infangati dopo un allenamento.
Tutti pezzi diversi, tutti i colori del Mondo. Insieme.
Niente che li divida e se si devono mischiare tra loro, che sia.
L'importante è che il lavaggio sia alla temperatura giusta, coi giusti ritmi e
i giusti consumi.
Passando per Milano in questi giorni ho visto che in poco tempo si possono
cambiare le cose, almeno apparentemente, e che se anche ti senti incapace
di qualcosa di buono, qualcosa lo puoi fare.
Poco magari, non molto. Anche una pacca sulle spalle, un saluto o un ricordo
cambiano le giornate.
Ci sono notizie che ti piegano le gambe anche in un giorno di festa e feste a
cui vorresti partecipare sino all'alba.
Ci sono fontane sotto le quali si può consolidare un'amicizia bagnandola
con una sola bottiglia di vino bianco.
Pensando a quanto possa produrre sul mio corpo la fatica fisica mi sono
convinto che non è nulla rispetto a quella mentale, alla foga del pensiero.
Molto meglio spaccarsi la schiena che la testa, pensando a cosa sarà domani,
quando l'oggi troverà il sonno dei giusti e il primo sole propone una strada
conosciuta, che però non sai dove porterà. Senza guardarsi indietro.
Ci sono notti in cui vino e birra trasportano le risate e mattine in cui non trovi
l'aspirina per il tuo malditesta e cerchi la soluzione.
Ci sono tensioni e incazzature per sprechi e malomodi e scambi di parole con
persone eccezionali. Foto, incontri, mani e sorrisi.
Ieri notte, tornando nel mio spazio condiviso di questi giorni ho pensato a
quanto dieci giorni possano sembrare eterni e come da una fessura sia
possibile guardare il Mondo esterno senza essere visti.
Lasciarsi trascinare dalle correnti, dalle gradazioni di calore e magari farsi
intaccare da altri colori, venire a contatto con altri tessuti e pensare.
Pensare che se anche una volta fuori sei confuso, smacchiato, invecchiato e
intorpidito...se hai preso un pò di botte e vorresti spaccarti la testa contro
un muro anzichè continuare ad essere sballottato...se non hai ancora capito
un motivo solo...pensare che comunque ne è valsa la pena.
Ci sono assenze che lasciano il segno e ricordi che lavano le menti.
Ci sono gruppi spalla che non fanno mai il soundcheck e batteristi che
picchiano il ritmo giusto.
Ci sono cose che van vissute e raccontarle non serve a un cazzo.

martedì, settembre 07, 2010

Un brindisi statico davanti al presepe

Ho alzato il bicchiere al cielo e ho brindato al tuo Dio, quello sporco e malato,
insieme al Che, bastardo e stronzo sognatore centroamericano, fascinoso
almeno quanto intelligente.
Non mi alzerò mai più al mattino con il carico dei libri che ho letto e da cui
non ho tratto un cazzo. Nemmeno il bianco delle pagine finali mi ha mai dato
la minima ispirazione.
Se solo fossi intelligente come un di quei tizi che risolvono omicidi gialli o
neri, vedrei tutto in technicolor.
Preparerò i miei caffè sempre più carichi, perchè ho aumentato anche la
mia dose di latte quotidiano. Lava l'incoscienza. Come ben saprai c'è sempre
troppo caffè nel mio caffè&latte
.
Manterrò distanze fisse tra la mano e lo sciacquone per non gettare troppa
merda e troppo sperma.
Ma tutto è bene.

Mantengo il calice verso il cielo brindando a quella Madonna ispiratrice di
mille sogni erotici, restando fermo e scanzonato insieme a Gassman e
Mastroianni ridendo delle battute di Sordi.
Non mi cucinerò mai più dei cibi surgelati senza odori ed emozioni da
gridare, piuttosto continuerò a bere sul divano senza fissare niente se non
il muro che ho di fronte.
Accentueremo i nostri passi ciechi al buio del mattino, prima di andare
a letto, lasciando impronte indelebili su un letto di bile.
I crampi allo stomaco saranno soltanto il ricordo felice dell'alcol di ieri.
Ma tutto è bene.

L'ultimo brindisi che offro al piccolo Bambino, figlio corretto del peccato
divino. Con me al mio fianco un paio di amici, di quelli buoni, presi in anni
di serate insieme e tenuti per momenti di solitudine da passare insieme.
Dormirò ancora mostrando il fianco, indifferente se sarò maggiormente
attaccabile e non riconoscibile. Posso vomitare su un fianco e farmi
riprendere nelle foto soltanto di schiena.
Nel bianco candore del lenzuolo non leggerò mai più sinchè mi si chiudono
gli occhi, per non avere niente tra le mani il giorno dopo, ma penserò a
tutti i libri che non ho letto e mai leggerò, scacciando zanzare e fantasmi
con manate e bottigliate. Sempre senza disdegnare sogni di cui non
ricorderò i protagonisti ma soltanto i contorni sfuocati e qualche dialogo
insensato. Dimentico sempre tutte le cose importanti, tra mille notti insonni
passate in sonno profondo e mille bolle blu.
Ma tutto è bene.

Tutto è bene come un finale sballato che non riesco a trovare e un ennesimo
brindisi davanti al presepe schierato nella formazione titolare. Una
lacrima, anche solo una la posso spendere se solo vedrò muoversi
qualcosa all'orizzonte, fosse anche solo la stella cometa che indica la via
o una fottuta allucinazione data dall'alcol.
Ma non è così, per cui tornerò a cercare un finale adatto a tutto ciò.

martedì, agosto 31, 2010

La moda del lento fatica a passare

Non ho mai avuto idee geniali, nè sul lavoro nè nella vita personale.
Non ho mai avuto descrizioni banali, nemmeno nello scrivere una
cartolina, uguale da un lato e diversa dall'altro. Dio solo sa quante
cartoline ho scritto...
"ciao nonna saluti da Paros" "ciao mamma saluti da Paros"
Scritte tutte rigorosamente da ubriaco, con calligrafia storta.
Adesso crocifiggetemi per queste cartoline, ma siete solo degli stolti.
Avere zero inventiva nella tecnica quotidiana del vivere mi riempie
di comune orgoglio. Cosa mai mi può importare di come si sta seduti o
di cosa dire al cassiere. Io parlo come voglio e mi siedo con le mie pose.
Atteggiamenti dell'attimo, quello ultimo, prima del cambiamento.
Non ho mai avuto intuizioni geniali, nè in fila in posta nè nelle mail
impegnate o nei discorsi articolati.
Non ho mai avuto pensieri banali, nemmeno nel passeggiare tra un reparto
e l'altro di quei templi pagani chiamati supermercati.
Mi atteggio, finto scazzato, tra un reparto e l'altro pensando a come
accompagnare la bottiglia di vino appena presa. La birra non la accompagno
a niente, è lei a portarmi a spasso.
Carne o pesce? Meglio la classica carne in scatola, così non devo lavare
i piatti. Anche se spesso li sporco appositamente per poterli lavare.
Dio solo sa quanto mi rilassa lavare i piatti...
Non ho mai pensato a progetti geniali, nè fissando un pc nè l'arredamento
di casa mia.
Non ho mai immaginato mondi banali, nemmeno parlando con noiose
persone al bancone di un bar o all'angolo della mia strada di casa.
Ascolto tutto, spesso senza interesse facendo domande attinenti con faccia
pensante. Cosa mai avrò da condividere con tutti.
Intanto li immagino in altre situazioni, li vedo in strane posizioni, li metto
a capo di strani concetti o di gruppi di indiani senza cavallo.
Vestiti e capelli modificati secondo la moda appena passata.
Cosa può importarmi di tutto ciò che mi circonda se è privo di poesia,
credo niente o perlomeno non più di autobus che oltrepassa un incrocio
o un treno fermo sulla banchina.
Dio solo sa quanto mi incuriosisca l'andare e il venire di persone in una
stazione...
Penso a quanti andranno incontro al loro amore, quanti al lavoro che non
vogliono fare e quanti invece non stanno andando da nessuna parte
per il semplice fatto che hanno sogni.
Non ho mai generato emozioni speciali, nè parlando con una ragazza nè
ubriacandomi con un ragazzo.
Non ho rilasciato banalità dopo un incontro, fosse anche per uno sguardo
o per un silenzio voluto.
Penso che si possa dire molto anche senza parlare, senza dire nulla di
importante. Sono anzi convinto che a volte si possa essere molto più
comunicativi dicendo sempre idiozie e poche volte stando seri, centellinando
la propria saggezza su grosse sorsate di follia.
Ti daranno del buffone, del pagliaccio, aumentando il tuo ego perchè in fondo
è ciò che vuoi, dimostrando quando serve ciò che si è.
Perchè non serve sempre dimostrare. Dio solo sa quanto mi piace essere e
non apparire ciò che sono...
Sarà per questo e per tutto il suo contrario, forse per il fatto che pensare fa
male o per tutta un'altra serie di cose. Sarà per il gusto del marcio o il gusto
di un bacio. Sarà anche per il fatto che io considero l'abbraccio la più bella
dimostrazione di affetto e non mi interessano le pacche sulle spalle.
Forse è anche vero che sono solo un folle illuso visionario e che mi annoiano
i discorsi seri in cui sono protagonista. Sarà che penso di buttarmi via e c'è
chi dice dovrei scrivere davvero e non per finta. Ma forse io non so cosa sia
vero e cosa finto.
Penso che sia geniale avere trent'anni e non sapere tante cose perchè mi
lascia il tempo e lo spazio per pensare. E continuare a farlo.

giovedì, agosto 26, 2010

Revival

Era revival.
La musica degli anni '70, tutti belli frikkettoni sulla spiaggia con un fuoco, la
chitarra e la bella da baciare, nessun pensiero nessur rancore.
Rai 1 al televisore, il disco che gira, qualche sparo alla finestra.
"Papà posso avere ciò che voglio e sognare ciò che posso guardando fuori
dalla stessa finestra?".
La Vespa o la Lambretta, la vacanza a Rimini in attesa di tornare nella mia
Milano da bere, quella che dieci anni dopo avrebbe aperto le gambe come
una puttana da bordello.
Cartoline dalla Romagna in salsa rivirasca.
I cantautori, Battisti e DeAndrè, Guccini e la poesia, Ginsburg e
Ferlinghetti e come siamo belli, magri e avveneristici coi nostri capelli
lunghi e quei libri che traduce la Pivano. Come si chiama quello che sono
sulla strada? "Oh the road" mi pare, e allora andiamo.
La musica degli anni '70, i pantaloni a zampa, quanto cazzo eran belli gli anni
'60, le prime droghe di tutti e tutto per tutti.
Fottiti Stato, evviva l'Anarchia, votiamo lo statalismo e abbasso il liberismo.
Poi se in futuro vincerà il capitalismo sarò abbastanza ricco da fare a meno
del mio credo comunista. E' tutto un revival.
Il rosso mi dona, ma dipende dalle stagioni.
Marce in strada ricchi di colori, i cori contro tutti e lo slang per tutti.
A braccetto con Berlinguer, Pertini o Pajetta, chi era stato Partigiano a
guidare da una parte e in fondo tutto era già parte dello stesso teatrino.
Orchestrato da altri, che stavano dietro.
Nessuna base per i nostri futuri, solo dello sperma pronto ad essere
utilizzato e forse anche male.
La musica degli anni '70, le canzoni, erano altri tempi che non ci sono più.
Ti hanno mai parlato di Prima Linea?
Hai mai visto niente delle Brigate Rosse? Erano gruppi musicali, rock e
psichedelici, facevano una musica che non si ascolta più e i loro live
eran micidiali. Purtroppo.
Nascondi tutto, di tutto un fascio. Mettiamo bombe a suon di musica e sarà
impossibile vedere la mano. La mano di Stato e la mano colpevole.
Spesso è la stessa. Silenzio è un revival.
Di tutto un fascio e sfascia tutto, poco importa se muore un innocente e
resta il dubbio per cent'anni se è il caso oppure ci stanno prendendo
per il culo. Importante però essere fantasiosi e parlare di amore e famiglia,
mai di sesso e piacere. La Chiesa vede. E provvede.
Perchè è e sarà per tutti un revival.
Mentre ballavano e cantavano intorno a un fuoco, qualcuno moriva per
le strade e forse non eran tutte rose e amori.
Da certa merda è vero che nascono i fiori, ma da altra merda è nato l'odio e
la P2, è cresciuta la Mafia e ora balliamo per un posto in televisione.
E' un revival, un souvenir di ciò che era.
Cartolina dalla Romagna, sa un pò di piadina ma è originale.
La musica degli anni '70 mi ricorda un fottuto revival.

lunedì, agosto 23, 2010

Incontri casuali cui ho fatto caso incontrandoli

Era l'estate del 2004, tornavo dalla Calabria solo, avevo lasciato i miei amici
su un treno diretto a Milano. Io sarei andato nelle Marche di lì a qualche ora,
facendo una tappa forzata alla Stazione Termini. Roma. La capitale di uno
Stato fantasma, dell'Italia palazzinara e di partito, del Paese in cui tutto è
concesso basta conoscere quelli "giusti", la Roma "città eterna", bella anche
quando dorme. Lì ho conosciuto A. fermo su una panchina di marmo. Sguardo
fisso, solo, perso. Avrà avuto dieci anni più di me e cento esperienze davanti
a lui che io non riuscivo a vedere. Ma zero speranze.
Parlava stanco del padre padrone, del sistema militare in casa, della fuga
da quel paesino e della fame che riesce a darti una città in cui sei solo.
Dove non sei niente. Io che mi sentivo vagabondo per un viaggio solitario,
un amante perfetto senza la pratica del letto.
Bevemmo birra sino alle 4 del mattino, poi mi lasciò lì solo, per andare ad
iniziare il suo giro quotidiano. Moneta per pane, uguale fame.
Non avevo libri con me e lessì tutto d'un fiato la sua storia. Senza fiatare.
Come quella volta a diciasett'anni. Estate '99, prima di andarmene in giro
per il mondo, ultima del millennio vecchio. Insomma ero dannatamente
giovane. Avevo preso una bicicletta dalla spiaggia, a chi non lo so.
Mi diressi con gli amici a vedere i fuochi artificiali, ma nel marasma, non so
come, li ho persi. Tutti. Che fare? Giro a caso, per vedere se trovo qualcuno.
Da una panchina mi chiama I. avrà trent'anni, ma alla mia età sembrava
già vecchia. Mi parla, mi chiede un sorso di birra, gliela porgo.
Fa la puttana, si sente morta, ha pochi denti e sorride lo stesso. La ascolto,
non so che dire e mi fa un pò paura. Io non so che dire, perchè mi parla?
Mi racconta tutto di lei, del perchè è in Italia e piange vedendo i fuochi.
Gli ricordano le bombe da cui è scappata, la Sarajevo di Milosevic, la
città del rinascimento slavo.
La ascolto tra il rumore di un fuoco e un altro, tra gli spari delle bombe
e un bambino che grida dalla sorpresa.
La ascolto e mi sento in un romanzo, senza poter mettere un punto e andare
a capo. Così riprendo la mia bicicletta rubata e torno sui miei passi sino
a dove l'ho trovato, all'indice del libro per dimenticare tutto.
Ma sin da bambino son cresciuto in mezzo alla strada, nel senso dei giardini
pubblici, del pallone, della panchina e la merenda a metà pomeriggio.
Il re del giardino era S. un barbone sui 70, dolce come il miele sinchè l'alcol
non prendeva possesso della sua mente, liberando il dolore che aveva dentro.
Figlio di una famiglia ricca, corso, lasciò tutto perchè tutto gli faceva schifo.
Era l'amico dei cani, ma solo di quelli che parlavano con Lui e dei bambini,
soprattutto di quelli che non parlavano. Per questo eravamo amici e quando
in casa mia madre cucinava qualcosa di buono volevo che un pezzo fosse per
lui. Non so che fine abbia fatto, questa città cancella le anime con la stessa
facilità con cui puoi strappare le pagine di un libro. Non rispettava nulla,
la morale, il nudo, Dio e la perfezione. Solo i più piccoli e i cani.
Non so quanti libri mi abbia raccontato S. con la sua vita, le sue manie e
perversioni. Un Buckowsky del Giambellino.
Non so nemmeno quante pagine non ho letto della gente che ho incontrato,
quanti indici indisposti o parole gettate al vento.
Con quante parole mi sono fatto libri e quanti racconti non mi han destato
nulla. Però da tutti gli S. gli N. le G. che ho incontrato ho cercato di farne un
riassunto e trarne storie per la mia storia personale.

lunedì, agosto 16, 2010

Il Giudice

Abiti usati, dismessi e sopratutto poco impegnativi. Nessuna giacca, cravatta,
camicia o qualsiasi altra imposizione. La stanza ha ancora la polvere del
mese scorso accumulata e ben visibile tra le lame di luce che entran dalle
tapparelle dismesse e abbassate il martedì o il mercoledì passato.
Non uscirà oggi, neppure domani e non lo farà sinchè non farà pace con la
sua ombra, con l'immagine riflessa nello specchio, con Dio.
Il fottuto Dio che ha formato la sua morale e il suo buonsenso.
Giudicato di continuo, portato al giudizio comune, Giudice infine dell'atto
altrui. Distrutto sotto il peso di sentenza e comune opinione.
Non può essere la rabbia e nemmeno l'orgoglio, un cambiamento lento e
macchinoso, come il solco dell'acqua o il crescere di un bambino.
Per anni gli studi e il perbenismo, per decenni il buonsenso comune e la
coerenza di pensiero.
Non cambiare, non osare, non tentare, ma star sempre dalla parte del giudizio
collettivo, del potente di turno, dell'amor comune. Amore pudico e coperto.
E' stato lì, nell'ombra di qualcosa di sconosciuto che hai sentito odore di
libertà e di cambiamento.
Giudicare per non essere giudicato, per la paura di non esserlo.
Portando avanti una legge in cui non crede, ma imparata a memoria, come
l'attore di soap-opera impara la sua parte. La meccanica dell'oblio.
Il servo dello Stato serve allo Stato, ma cosa serve?
La solita minestra, a volte anche scaldata. Spesso raccontata male.
A testa bassa troppi anni, guardando le scarpe lustrate da poco, la piega
perfetta dei pantaloni a coste, la camicia in tinta con la giacca.
Il mondo sempre a colori come la televisione di Stato, quella che indica la
via, i valori, la cultura. Insegnante di recupero per menti svuotate.
A testa bassa nell'ascoltare le vicende, girato magari verso il senso comune
di verità spesso inchiodato al lato opposto della grande scritta "La legge è
uguale per tutti".
Non era un niente in un sistema oliato, niente arte ma solo l'essere di parte.
Aveva sentito parlare di altri giudici e magistrati folli, finiti male perchè
inseguivano la giustizia dal verso opposto, quello "giusto".
Saltati in aria all' altare della comune decenza cattolica e democratica.
Fu un giorno di follia, di pura follia, quello che lo portò ad alzare lo sguardo
per vedersi riflesso nello specchio.
Fu un semplice sguardo a portarlo a vedere cosa aveva dentro.
Fu allora che si giudicò come uomo, senza il filtro del pensiero comune.
Decise che la sua pena sarebbe stata la detenzione forzata in qualche
metro quadrato, qualcosa in più di quattro pareti.
Senza cambiarsi e lavarsi per non avere parametri di giudizio stranieri alle
proprie essenze, il Giudice si giudicò così com'era.
Provò un senso strano di perversione, nuovo e mai avuto prima, eccitandosi
per il giudizio insano che aveva di sè e odiando ciò che era stato sino ad allora.
Il perbenismo che era lui finì e cominciò la stagione della ragione, della
visione delle cose così com'erano. Capì anche che a saltare in aria non furono
i folli ma i "Giusti". Senza paura.
Capì tutto questo e si chiuse sempre più in se stesso aspettando di sbocciare
in qualcosa di migliore.

*dedicato alla memoria di chi ha lavorato guardando la Giustizia in faccia e non girandosi dall'altra parte.
Falcone, Borsellino, Ambrosoli, etc...

martedì, agosto 10, 2010

Ti ho mai detto?

Vi ho mai detto di quanto a volte mi dimentichi di dire e fare cose?
Addirittura mi perdo i pezzi e non riesco mai a fare una cosa bene. Sarà per
questo che fino a un certo punto sembro perfetto e poi mi manifesto per ciò
che sono, inconcludente.
"Gioca bene, ma non fa goal" direbbero alla Domenica Sportiva, oppure
"Si impegna, ma non riesce a proprio a capire" diceva la mia maestra.
Già la mia maestra. Sono sicuro di non aver mai detto che all'asilo mi
innamorai per qualche giorno della mia maestra più giovane, che poi se ne
andò e diedi la colpa a mia madre, pensando fosse una strega.
Chissà perchè.
Ho scritto tante volte dei miei nonni, ma mai ho detto che per me l'estate
senza di loro non ha più senso.
Senza il giornale letto con mio nonno, le ramanzine perchè non facevo i
compiti e andavo a giocare in strada, quelle strade di Treja e Montefano e
i lunghi pomeriggi marchigiani, il pallone o la racchetta e quelle attenzioni
che nessuno mi potrà dare così.
Non l'ho mai scritto ma lo penso ogni metà Giugno per tre mesi.
L'estate, il mare, i bagni.
Io che da piccolo ero ciccione e non mi toglievo mai la maglietta per vergogna.
Mi rifugiavo al bar a giocare ai videogame, facevo amicizia con altri ciccioni e
forse da lì è nato il mio odio a console e playstation varie.
Bimbo Simone e la sua banda di ciccioni. Non l'ho mai detto, me ne vergogno.
Ho mai detto delle prime vacanze con gli amici? Gruppo di sedicenti bevitori
in cerca di avventure e mai una volta che qualcuno tornasse a casa felice.
Ma i tempi sarebbero cambiati, anni dopo e dopotutto la gavetta serve.
Non ha mai detto tante cose e non ho scritto interi capitoli di me.
Ho fatto l'istituto tecnico sinchè non mi sono accorto che anzichè da striscie di
"zero e uno" in codice binario la vita era fatta di fiori, giochi e colori.
Ho conosciuto la poesia, letto Sepulveda e per la prima volta un goal non è
stato solo un punto in più, ma condivisione di un mondo, di affetto e amicizia.
Un abbraccio vitale per chi stava soffrendo.
Da "tecnico" sono diventato un "niente" che si commuove per ogni stronzata.
Aspetta però, non andare...non ti ho detto ancora tante cose.
Una volta mia madre ha trovato un giornalino con le donne nude nel nostro
bagno di casa, avrò avuto 14 anni. Lo utilizzavo per amare. Alle sue incalzanti
domande non potei fare altro che dar la colpa al mio migliore amico.
"Lo tengo io perchè a casa non può...già". Lui non lo sa, non diteglielo anche
se non credo di esser stato creduto.
Mera figura da mezzo uomo (o mezzo ragazzino), ma mai come quando me
ne andai dal seggio elettorale fiero di aver votato Rutelli. Anno 2002?
Ebbene sì, non te l'avevo mai detto vero? Ho votato Francesco Rutelli.
Non parlo sempre di me, in realtà lo faccio raramente.
Maschero, nascondo, recito.
E' più facile scriva qualcosa di me anzichè parlarne.
Tante cose non le dirò mai, però posso inventarne altre.
Tu hai qualcosa da dirmi?

giovedì, agosto 05, 2010

Guardando dentro le palle che appena le giri scende la neve...

E' l'effetto della neve in agosto a Milano.
Niente macchine, solo cumuli di acqua ghaicciata attorno a noi, nemmeno
la merda che copre i marciapiedi sarà più come prima.
Tutto il silenzio, il contorno della nostra vista, in questo freddo agosto di città.
Guardando dentro le palle che appena le giri scende la neve...
Tutto il mondo in miniatura, il mondo che schizza, sfreccia e arrossisce al
primo complimento.
Milano in agosto ha la neve agli angoli delle strade, offerta in comode
confezioni facili da usare. Che solo il vento può portare via.
La forma più democratica di finta esaltazione, emulazione del lusso.
La Milano d'inverno non è quella d'estate. Vero?
Guardando dentro le palle che appena le giri scende la neve...
Vedevo sempre piccoli omini girarsi, muoversi, senza parlarsi, senza
guardarsi in faccia, indifferenti, come chi non sa fermarsi a guardare un fiore.
Tra luglio e agosto cambia poco, ma è tutto differente. Con tutti i colori messi
insieme che si fondono, come neve al sole. Con tutti i colori coperti di neve,
un bianco unico, un finto candore. Innocenza macchiata.
Guardando dentro le palle che appena le giri scende la neve...
Preferivo sempre quelle col Duomo di Milano, senza piccioni, a quelle della
grande torre storta o dell'arena dei gladiatori.
Mi dava senso di casa e la sensazione di poter cambiare le cose, anche
l'indifferenza che vedevo in giro, quella che oggi si chiama normalità.
Purtroppo.
Era la neve che scendeva con un mio gesto a darmi quel potere.
Tutto bianco, tutto in silenzio, tutto coperto. Niente.
Una volta scesa, avere la forza di rifarlo ancora, senza sosta sinchè non fosse
uscito qualcuno a dirmi di smetterla. Ma non è mai successo niente.
Guardando dentro le palle che appena le giri scende la neve...
Sentivo di poter mettere dentro tutto quello che non mi andava, di agitare e
coprire tutto, di agitare e mettere tutto in ordine.
Il solo fatto che ogni volta tutto tornasse come prima mi agitava, ma mi
dava la rabbia per rifarlo. All'infinito.
Mi assaliva soltanto un grande freddo, dalla schiena sino alla punta delle
dita. Il mio corpo, i miei muscoli, la carne, tutto fermo. Vuoto a rendere.
Guardando dentro le palle che appena le giri scende la neve...
E' l'effetto della neve ad agosto a Milano.

lunedì, agosto 02, 2010

La poltrona

Che effetto fa sedere, solo, nella poltrona dove dormivi da bambino?
Una bottiglia di vino rosso aperta un'ora fa, macchia la pagina del libro
aperto trenta minuti prima, di cui non ho ancora letto nemmeno una riga.
La parete bianca è molto interessante vista da questa angolazione.
Ci proiettano sopra film in bianco e nero che sanno di Parigi. O del porto
squattrinato di Marsiglia, come i tre pastis che ho bevuto per aperitivo.
Ne ho offerto uno anche al mio ospite inatteso che ha lasciato la casa non
appena ha capito che non ne sarebbe mai uscito vivo.
Schiacciato dai sensi di colpa e fatto a pezzi dalla mia indifferenza.
Paranoica sensazione di mancansa di aria.
Non faccio il matto, tranquillo. Apro la finestra e il condizionatore protesta
per lo spreco. Fanculo la tecnologia.
Alzo la bottiglia di vino e ci sono ancora tre bicchieri abbondanti, tre buone
dosi di silezionzioso divertimento solitario.
La televisione dietro di me riflette l'immagine di un divano rosso con
sopra appoggiato un cappello di paglia e un mucchio di riviste.
In quasi tutti quei settimanali sono riportate notizie di guerra o di morti
ammazzati, di ladri e puttanieri. Il tutto è semplicemente normale in
tutti i giorni delle nostre settimane.
Non ci sorprende più niente.
Allora prendo tempe e inspiro aria fresca.
Decido che sarò direttore del giornale locale, ma focalizzo dopo poco che
scriverei solo per me, soprattutto dopo che il mio amico immaginario mi ha
lasciato con un pastis da finire.
Il fallimento del mio giornale mi lascia indifferente, come la parete bianca di
fronte a me di cui non ho più seguito il film. Che ora è a colori forti.
Accendo lo stereo, il volume è alto, molto alto. Solo dopo dieci minuti mi rendo
conto dell'orario e abbasso. Non vorrei mai far arrabbiare il vicino. Mai.
Troppo tardi eppure così fottutamente presto.
Dormo, non dormo. Ho ancora il vino da finire, solo un mezzo bicchiere e
poi potrò finire la mia ultima birra. L'ultima della serie.
Prima però, per digerire, un bicchiere di amaro. Tutto questo senza vedere
più, senza andare più oltre. Senza analizzare, come fossi un quotidiano locale.
Avrei fatto bene a non farlo scappare, a rimanere attaccato a quel barlume
di qualcosa che riempisse il niente. Immaginario.
Avrei fatto bene, però al tempo stesso fanculo.
E' solo un sogno, uno stupido sogno.
Sarà la poltrona dove dormivo da bambino a rendermi così, ma almeno
riesco ancora a stupurmi e indignarmi. Come all'ora.

mercoledì, luglio 28, 2010

Anche se arrivi così

E' tutto il sapore del Mondo, indivisibile, anche se parti così, inutilmente.
Girare, vagare, la musica che ti prende e ti porta via. O ti lascia lì, a bocca
aperta, senz'aria, senza voglia, senza saliva.
Testa bassa, inutilmente, col pieno diritto di esserlo. Inutili.
C'è molta ipocrisia nel credersi normali, a meno che non si affermi che
siamo in un Mondo di matti.
Matti e non folli, la follia la ritengo un pregio.
Partire con la testa, con lo zaino, con il cuore.
Per niente, per qualcosa, per scopare, per amare.
Inutilmente, se poi ritorni come prima.
Testa bassa, inutilmente, fieri dell'occasione persa. Andata.
Ci sono treni che partono ogni cinque minuti e portano nel solito posto,
li prendi tutti i giorni, ed altri che passano una volta sola e puntualmente
perdi, come non mai.
E' in questi momenti che capisco l'invenzione del ritardo. Serve a non
prendere decisioni e farsi trasportare dagli eventi.
Testa bassa, inutilmente, in preda alle correnti del fiume in secca. Umidi.
La banalità della normalità viene ritenuta un pregio, che molti chiamano
umiltà, che fa sbocciare ma rischia anche di far appassire in fretta.
Mi rattristano i fiori appassiti, soprattutto se hanno ancora l'acqua nel vaso.
Continuerò a bere troppo caffè mettendo sempre meno zucchero, magari
correggendolo col Vernelli per dargli forza e vigore. Un liquore sconosciuto,
di quelli che si servono all'ombra, come i vecchi che giocano a carte nei bar
o quei terrazzi pieni di fiori che stanno all'interno dei palazzi, coperti da altri
palazzi e rinchiusi nei cortili.
Alzando lo sguardo ogni tanto, giusto per farne vedere la profondità in chi
sa osservare sino in fondo alla via e non soltanto i propri passi.
Rimanendo convinti che una farfalla, seppur bellissima, ha tutto il diritto di
non uscire mai dalla sua crisalide. Soprattutto se non ne ha voglia.
E' tutto l'odore del Mondo, invisibile, anche se arrivi così, inutilmente.

venerdì, luglio 23, 2010

Un giorno giravo nel candido decadentismo

Un giorno lessi che per arrivare in alto ci voleva una scala a chiocciola e fu
lì che capii che la mia paura per i vortici mi avrebbe portato a non percorrerla
mai, nell'attesa del giorno perfetto.
La lunga attesa, l'onda perfetta.
Percorrendo i soliti percorsi sono quasi sicuro di notare cose sempre diverse,
nella luce del lampione, nell'ombra sui marciapiedi e nel solco che passa tra
una strada e l'altra.
Quale?
Quello che ti porta a prendere una decisione, che ti trasporta nel giorno
perfetto, il giorno candido.
Incrociando le dita e scontrando il razionale con la realtà, con musi allungati
e faccie stordite dal caldo, dall'affanno. Dalla noia.
Dal fastidio di vedersi riflesso ancora sugli stessi specchi che purtroppo
non deformano, ma lasciano le cose come stanno.
Un titolo di studio, un titolo sul giornale e un titolo al solito post depresso.
Nel giorno perfetto a un tratto si spegne la luce ed io immagino a cosa si
pensi nell'attimo prima che avvenga.
Non al buio, non alla luce. Un giorno candido.
Nel lungo attimo che passa in pochi centesimi di secondo. Quello che resta
impresso sulla tua retina l'attimo prima dell'ultimo attimo.
Come poco prima di impattare un pallone e già immaginarselo in rete o
come sapere che è già tutto finito prima di cadere dall'alto.
Immaginandosi il profumo dei fiori simile a quello del sapone dopo che hai
lavato le mani, sentendo in faccia l'umido delle lacrime e in bocca il marcio
delle cose scritte su una poesia persa in quelche bicchiere di troppo.
Un giorno candido come la fine.
Ma è risaputo che se si riuscisse a dare un peso alle parole si riuscirebbe
a non farle volare ed imprimerle su un foglio bianco le fissa nel tempo ma
non nell'istante in cui le hai pensate.
Da una scala a chicciola si può cadere con troppa facilità per il rischio di
arrivare in alto, anche nel giorno perfetto.
Un giorno tornerò a girare nel candido e decadente giorno perfetto.

mercoledì, luglio 21, 2010

Allestire futuri equivale a costruire castelli di carte

Testa muro testa muro testa muro.
Non bevo più nemmeno troppi caffè perchè mi han detto che fa male.
Fa male al cuore, al carattere, innervosisce.
Già.
Sbatto gli occhi, la gamba va a mille e tutto procede.
Scrivo e cancello tutto questo dieci, venti, cento volte e non saprò mai cosa
poteva venirne fuori.
Che non so quante volte avrò maledetto la mia totale incapacità a suonare
uno strumento o il fatto che ho una voce di merda.
Potevo campare di musica, io.
Invece ho scelto di giocare a calcio. Ennesimo fallimento di una vita.
Muro testa muro testa muro testa.
Quando mi arrabbiavo con mio padre, da piccolo, non gli davo mai la
sensazione di essermela presa, mi chiudevo in camera da solo e ne uscivo
con dei gran bernoccoli o dei graffi sulle braccia.
Roba da poco sia chiaro, ma c'è da chiedersi come abbia fatto a non esser
diventato scemo del tutto. Ma forse non c'è bisogno di chiederselo.
Se soltanto riuscissi a mettere in musica le parole, farne suoni, se soltanto
trovassi una chiave diversa dalla solita per raccontare, credo avrei
maggiori soddisfazioni. Anzi ne avrei qualcuna.
Sarei potuto essere anche un bravo disegnatore, colori o bianco e nero,
ombre e luci, senza la paura di apparire troppo cupo e malinconico.
Puoi sempre dire che quello è il tuo stile.
Cosa che non posso dire. Perchè per avere uno stile devi essere qualcuno.
MuDimensione caratterero muro muro testa. Rimbalzo.
Mi gioco la giacca bella, la camicia stirata, le mutande lavate.
Non serve a un cazzo. Perdo tutto al primo giro di marciapiedi, alla prima
svolta a destra. A sinistra non potevo girare, il semaforo era rosso.
Certo fosse stato tutto in bianco e nero non avrei avuto questo problema.
Testa muro testa muro testa...ora basta che comincia a farmi male.

lunedì, luglio 19, 2010

Il peso della storia

La storia non serve a un cazzo.
Mi assumo il peso di questa affermazione, per ciò che vale.
Ma mi sono rotto i coglioni di pagine bianche macchiate di inchiostro e
corredate da foto in bianco e nero. Vuote, senza un senso e raccontate a
manichini senza memoria.
La storia ha un senso solo se lascia un segno, un segno indelebile nella
memoria delle persone che l'hanno vissuta, ma sopratutto in chi non l'ha
vissuta ma soltanto sentita raccontare.
La storia ha un senso soltanto se serve a evitare che si ripetano gli errori o
che tornino sotto altre vesti, magari soltanto più moderne.
A volte mi chiedo a cosa serva leggere tanto, immergersi in storie scritte
da altri su altre persone, dal Vangelo sino all'ultimo romanzo che ho in borsa.
Servirà forse a farmi dimenticare o a perdermi in qualche nuovo posto,
anzichè stordirmi con birre e vino. Serve forse a questo. Psichedelia.
Perchè anche le storie più belle non sono nulla se non vengono raccontate
e non passano di bocca in bocca facendo un ampio giro nelle teste pensanti
di chi le ascolta, per prendere ossigeno.
Ogni storia è fatta da storie di persone, alcune valide altre meno, che vanno
raccontate, discusse, vissute. Altrimenti non servono a un cazzo.
Io ero piccolo, giocavo sulla sabbia con le biglie e a un libro preferivo i video
giochi dei bar. Ero piccolo e non sapevo, ero piccolo e non potevo capire.
18 anni fa venne messo un grande lenzuola bianco sulla possibilità di fare
luce, di dare giustizia. Quel lenzuolo bianco è stato sporcato di sangue,
oramai rappreso, di parole vuote e di lacrime false. Troppe.
Ora ho quasi trent'anni e non ho più le mie biglie, il lenzuolo è ormai lercio e
copre gli occhi delle nostre coscienze, ci rende ciechi e perbenisti.
A quasi trent'anni, mi illudo che qualcosa possa cambiare e mi scontro su
muri di indifferenza, su libri bianchi senza parole, su corruzioni, mafie
tonache e congreghe.
Come se la storia non ci avesse insegnato nulla, come se la storia non
servisse proprio a un bel cazzo. Come se avesse ragione chi dice che le
speranze della gente sono come fumo, come il fumo che nasce da
un'esplosione. Però la storia ha un valore unico, assoluto.
Un valore che niente e nessuno potrà mai cancellare con televisioni e
opinioni lowcost ed è la possibilità di ricordare e fare in modo che nulla
venga cancellato.

martedì, luglio 13, 2010

Scrivere

Apro la seconda birra della serata e dentro me sapevo che il rischio di esser
solo in casa sarebbe stato questo.
Cerco lo stappabottiglie e non lo trovo. Poi lo vedo sotto il divano e penso a
chissà come potrà mai esserci arrivato. Forse il vento?
Ma scrivo soltanto quando è la pancia a dirmelo, senza imporre nulla.
Come un fiume in piena o un blues che ammazza la serata.
Un pò come mangiare, un pò come uno stimolo intestinale. Un pò un fottuto
vizio che mi è venuto chissà come e andrà via chissà quando.
Da quando ho cominciato a farmi in testa delle cronache per tutto ciò che
faccio, per quello che vedo. Un costante racconto che mi fa sempre pensare.
Bene o male, credo mi porterà alla follia. Di sicuro non guadagnarci qualcosa.
Trovarmi a scrivere su biglietti del tram, pezzi di giornale e tovaglioli,
semplici frasi, pensieri o disegni da cui poi partorisco altro.
Nulla di geniale, ma mio.
La cosa che più mi fa ridere è che a volte, soprattutto in passato mi abbian
detto che leggendo sembravo diverso da come apparivo.
Prima cosa, cazzo ne sai?
Poi è facile da dirsi e anche da pensarsi, non ci vogliono cultura particolare o
una spiccata intelligenza per scrivere. Forse è per questo che a volte sembra
"diverso" l'autore. Io non ho cultura e intelligenza particolari, ne tantomeno
un dono nello scrivere.
Fatico a scrivere una cartolina e non ho creatività negli auguri di Natale.
Ma ho la pancia, quel qualcosa che ti esce anche non seduto sul cesso.
La seconda birra è oramai a metà, l'orologio è avanti rispetto all'orario in cui
un bravo ragazzo va a letto per essere sveglio il giorno dopo a lavoro e la
verità è che non ho sonno.
Sto pensando a cosa sto facendo, lo sto raccontando a me stesso e penso a
cosa stai facendo tu, intreccio due cose, due storie. Magari lo racconteresti
meglio ma non scrivi.
La foto su Internazionale ha un colore strano e mi fisso a osservarla. La
macchia sul muro è soltanto umidità, non può essere l'immagine di Dio, Lui
non esiste e non siamo a Medjugoije per le apparizione ma in Giambellino,
piena Milano. Poi me l'ha detto Lui stesso che non c'è, quando gli corsi
incontro e mi fece trovare chiuso il portone della Chiesa.
Avevo bisogno, era chiuso. Eran 12 anni fa. Era luglio.
Oltretutto non c'entra un cazzo, ma proprio qui entra la pancia.
Finisco la seconda birra della serata, una lacrima si è formata sull'occhio
destro, sarà per quel portone chiuso o per il caldo.
Era luglio come ora, era caldo anche allora, non ero maggiorenne ma dal
racconto di quella corsa e quel portone chiuso capii che dalla pancia avrei
potuto dire tante cose.

mercoledì, luglio 07, 2010

Polvere di domande

Grattavo il fondo alle domande che mi ero già fatto.
Forse tra una piega e l'altra posso trovare qualche risposta. Forse non
dovevo abbandonare tutte le mie icone.
A scuola avevo paura del medico, delle punture e della serietà.
Poi col tempo ho capito che non dovevo averne paura, mi bastava stare
sempre bene e mai male. Semplice. L'ho fatto, ho provato ad essere perfetto
per vari anni, senza ovviamente esserci mai riuscito.
Nemmeno per lunghi minuti.
Associo spesso una domanda a una risposta. A caso.
"Mi piacciono i fiori" a volte fa da risposta al perchè mi fisso allo specchio
provando fastidio e al tempo stesso amore.
Una volta al perchè non riuscissi a esprimermi a parole mi sono risposto
che "con tre chili in meno starei meglio".
E' un gioco stupido, che non mi porta a niente. Dovrei forse darmi almeno tre
opzioni e poi scegliere la più vicina alla mia soddisfazione, molto spesso vicina
al mio senso di noia e solitudine fugace.
Mi aiuta però ad evitare di grattare via le croste alle mie risposte, al senso
ultimo di vendetta che hanno le domande.
Alle medie avevo paura di un insegnante stronza, di non piacere agli altri e
del buio.
Il buio mi fa ancora paura, ma ho imparato a come accendere la luce e
quando sono convinto di non piacere la spengo.
Ho cercato di esser sempre come gli altri volevano, ero un ragazzo con delle
caratteristiche. Mi piaceva molto la pioggia, anche oggi in realtà.
Poi le mie speranze sono andate in fumo, volate via con l'acne e le sessioni
onanistiche di amor fugace. In quei momenti mi facevo domande ma le
risposte le cercavo erroneamente negli altri o in consunti giornalini osè.
Adesso ho paura del padrone, di me stesso e di restarci troppo a lungo.
Il buio mi fa ancora paura, accendo e spengo la luce, ma credo che per
andarmene non basti più l'interruttore.
Senza tante parole, tutte queste parole che in fondo, pur grattando non
cambiano niente.

mercoledì, giugno 30, 2010

Come gli attori dei film

Perchè le andate sono lunghe e i ritorni pesanti.
Sarebbe facile raccontarsi senza dire di noi e parlando degli attori dei film.
Sarebbe ironico raccontarsi senza spogliare noi e parlando degli attori dei film.
Sempre allegri, un pò intriganti e poi spacconi a fare a botte come facevano
Bud Spencer e Terence Hill. Come Franco e Ciccio andare inconcludenti
per il Mondo senza capirci niente oppure farci un Mondo proprio nella
propria testa, come Stanlio e Olio, al centro di tutto.
Perchè le andate danno attesa e i ritorni ansia da prestazione regressa.
Sarebbe semplice raccontarsi senza toccare noi e parlando degli attori dei film.
Sarebbe cinico raccontarsi senza vedere noi e parlando degli attori dei film.
Scanzonati e belli al sole, sempre al centro della luce, passeggiamo sereni
per la strada con lo sguardo di Marcello. Restar sempre affascinati dalle
maschere dell'uomo e interpretarle come Sordi oppure Gassman, con
quello sguardo corrucciato e sempre attento all'emozione che riesce a dare.
Oppure andare senza la minima riverenza dietro alla paura che si ha e
prendere la faccia della tristezza e trasformarla nella gioia di una risata,
proprio come Totò tanti anni fa.
Perchè le andate duran sempre di più e al ritorno spesso non ci sono più.
Sarebbe folle raccontarsi senza odiare noi parlando degli attori dei film.
Sarebbe inutile alla volte raccontare di noi, avendo già gli attori dei film.
Scappare lungo luoghi inutili sulle strade del Messico e prender pesci
al largo con la lenza. Piangere in faccia alla morte così come alLa Grande
Guerra, figli di un'Italia sempre unita e fare il bagno con Anita
rimanendo icone di un tempo andato. Potremmo dirci anche in faccia frasi
già recitate, ma non sarebbe nulla di nuovo.
Sarebbe bello raccontarsi senza amare noi e parlando degli attori dei film.
Sarebbe morte raccontarsi senza dire di noi e parlando come attori di un film.
La lunga andata è passata e non so se poi ritorno.