L'angolo adatto per nani, ballerine, cantanti, troie, alcolizzati e illusi. Ovviamente qui nulla è serio...se sei dei nostri...benvenuto, entra pure

lunedì, novembre 29, 2010

Cercherò su di me

Cercherò su di me quelle risposte non date. Che non mi vengono date.
Partendo dai piedi proverò a capire i passi fatti, le circonvallazioni percorse dietro a locali o parlando coi conducenti. Dalle unghie rotte sui campi di periferia, per capire cosa mi resta di un sogno iniziato a sei anni, con un pallone e poche speranze.
Non sono belli, ma sono tutta la strada che ho fatto. Sono tutta la strada che sono riuscito a fare, senza precauzioni o passaggi filtrati da amici preoccupati.
La scia lasciata dalle mie camminate non è sempre dritta e lascia sempre il dubbio vivo nella mente, che io non sappia mai dove andare. Ma la parola MAI ha un peso troppo grande.
Cercherò su di me quei segni non avuti.
Salendo sino alle ginocchia che ormai cadono a pezzi. Articolazioni arrugginite in poco tempo, cariche del peso del corpo, delle botte e delle sere saltate per arrivare prima al giorno dopo.
Mi direbbero di operazioni andate a buon fine, mi accuserebbero di continuare a provarci anche con un ginocchio senza un legamento. Non saprei che rispondergli se non che quando vuoi il dolore non lo senti. Quando vuoi.
Cercherò su di me le cicatrici lasciate da altri su altri corpi. Perchè in fondo si vive anche sulle vite costruite da chi non sei tu.
Chiedendo a un fegato di buttare fuori la bile e tornare ad incazzarsi come prima. Come quando fuori piove. Le cene in ristoranti improbabili passate e dirsi quanto non può essere così, ieri come oggi, prima come dopo.
Chiedendo a un cuore di pompare sempre di più, perchè quando vuoi sai buttarlo oltre quelle mura con cui ti opprimi la mente. Anche se sai che non hai qualità, ma riesci a simularle. In altre forme, in altri colori, con la stessa resa.
Cercherò su di me la voglia di andare oltre il padrone, il padronato e la commozione.
Chiedendo alle mia braccia, alla mia schiena e al mio petto di farsi forza e tirare su il palazzo che è nella mia testa, chiuso tra schizzi di inchiostro, ricordi e qualche idea.
Anche quando la stanchezza ti fa dire "chi me lo fa fare" o per scaricare tensioni prendendo a bottigliate i fantasmi nella testa.
Cercherò su di me pezzi di altre persone, di cose che non ho vissuto, di storie che non ho scritto.
Chiedendo ai miei occhi di vedere un pò più in là, oltre ai miei piedi e al mio io. Oltre alla strada illuminata dal lampione. Cancellando l'egocentrismo indotto che ha una causa ma non dà nessun beneficio.
Portando i miei occhi a piangere ogni volta che lo ritengo opportuno, senza vergogna degli altri occhi che potrebbero giudicare. Voglio vedere tutto e quello che non posso vedere, voglio immaginarlo, leggerlo, scriverlo. Anche tenendoli chiusi.
Cercherò su di me. Punto.
Chiedendo alla mi testa di essere meno schierata e al mio pensiero di essere meno presente. Perdendomi in discorsi fatti in serate sbagliate, camminando all'indietro o correndo sul posto.
Girando le parole si possono cambiare i significati e allo stesso tempo non dire nulla. Anche senza stare in silenzio. Forse mi sono soltanto perso in un labirinto con troppe vie d'uscita, come un giro di chitarra in un pezzo che dal country sfocia in una ballata rock.
Cercherò su di me, già.

martedì, novembre 23, 2010

Ho ruttato a metà il nome di D**

Tra una cosa e l'altra c'è modo di vedere quello che non c'è.
Così è per questo che ti credi finito, ti senti sfinito e guardi l'infinito.
Credo che avrei potuto fare una fine migliore ma sarei dovuto partire da un inizio migliore.
Credo che le cose vadano in maniera direttamente proporzionale nella maggior parte della cose. Quelle in cui non va così non voglio nemmeno immaginarle.
Credo che se riuscissi a credere un pò di più in quello che non c'è avrei più fiducia in Dio e anche in me stesso. Nessun accostamento sia chiaro, io bevo, bestemmio e non ho santi in Paradiso.
Se guardo attentamente nella cesta delle cose sporche, oltre a calze spaiate e mutande ben educate, trovo anche anni di corse dietro al niente fatte solo per il gusto di avere il fiatone alla fine, di essersi spinti un pò più in là.
Credo a quella volta in cui mi sono tirato indietro perchè volevo farlo e basta.
Credo a tutti i treni che ho lasciato passare fissando gli occhi di quelli affacciati al finestrino. Se solo mi fossi impegnato di più ora potrei guidarlo io quel treno, ma visto il mio successo con la guida meglio lasciar perdere.
Credo che forse dovrei smetterla di credere anche a queste cose o al poco che credo.
Credo di non ricordare più dov'è quel posto che pensavo fosse definitivo.
Sono convinto che credere e pensare non abbiano motivo di essere accostabili. Due linee che si inseguono all'infinito e si incontrano solo quando l'occhio non arriva più a distinguer l'orizzonte. Perchè anche l'occhio vuole la sua parte.
Credo di ritenere interessante l'immagine di me, con tutti i pregiudizi che ho verso i ragazzi come me. Fintamente appartenenti a qualcosa o a qualcuno.
Credo di parlare a caso il più delle volte e che non sempre vengo ascoltato quando parlo veramente, dopotutto l'unica favola cui ho sempre creduto è quella di Pierino e il lupo.
Nel frigorifero ho tutto quello di cui posso aver bisogno. Birre, vino, carne ossa e altri parti una volta in vita. Scatolette, idee e qualche sguardo furtivo cui non posso dare seguito.
Credo nelle passeggiate senza meta, a una vita senza metà e alla mela tagliata a metà che si unisce ad altra metà. Di colore e gusto diverso, a volte opposto.
Credo nel guardare fuori dalla finestra per vedere il mondo stando fermi e nell'osservare uno schermo diviso a quadratini e non capirci un cazzo.
Credo in ore passate a raccontarsi il passato per vedere il futuro, passando in mezzo al presente. Coniugando tutto nel modo perfetto, sbagliando solo la punteggiatura.
Credo nei figli delle regine e nei figli di puttana, unendola spesso nella stessa figura di donna.
Credo che abbiate perso tempo oggi a leggere queste cose, ma ovviamente dovreste essere arrivati sino in fondo.

mercoledì, novembre 17, 2010

Senza vetro

Il più bel mare della mia vita. Aprendo la finestra di quella che era camera mia, anche se ad ore e per pochi giorni, potevo vederlo.
In lontananza. Non ho mai più visto un mare come quello, nemmeno all'alba, nemmeno in giorni di pioggia o di calma apparente. Credo di essermelo meritato e basta, ma non so il perchè, sono passati troppi anni oramai.
La calma data dalle prime luci di un mattino nato presto, dalle ceneri della sera prima, senza esser passato nel letto di nessuno, col cuscino ancora intatto dal passaggio della donna delle pulizie. Chi l'ha detto che alle 6 meno venti del mattino il caffè sia meglio di una birra fredda?
E' solo questione di abitudine.
Una stanza non mia, un letto non mio, una finestra non mia. Amici a condividere gli odori.
Però ciò che è intorno è anche mio, partendo dall'aria che respiro sino al mare, con tutto quello che ci sta in mezzo. Fino al mare appunto.
Perchè tutto il Mondo sia meritevole di essere, senza necessità o aiuti.
Quella calma piatta del mare d'inverno, anche se è Agosto e il sole comincia a dare cenni di esserci, educatamente ma con insistenza.
Guardare fermi fuori dalla finestra, una leggera brezza per restare svegli, sullo sfondo qualcuno che russa, altri stanno decidendo se dormire o restare vigili ad attendere il sole.
Un sorso di birra per calcolare la lunghezza del pensiero, per sentire quanto tempo serve per esser là, in mezzo al mare. Il mio fiato ha l'aroma della birra bevuta in serata, ma fa lo stesso una piccola nuvola quando fuoriesce dalla bocca, forse per il freddo forse per l'umidità.
Da piccolo mi piaceva pensare che quelle nuvolette fossero le parole, il peso delle parole, di un "ciao" o di "stai, ti prego".
Anche il respiro è meno affannato di quanto potessi pensare.
Dalla finestra vedo il mare piatto e il cielo calmo e mi rilasso pensando che forse un giorno anche io sarò così. Insieme sembrano perdersi nell'infinito sino a un punto in cui non arriverò mai nemmeno ad occhi chiusi.
La linea che divide il cielo e il mare non è mai stata così netta come in quella mattina.
In quel momento avrei voluto piangere credendo di poter scrivere di tutto senza sapere niente.

venerdì, novembre 12, 2010

Il ritmo è sempre lo stesso

Vorrei che il Natale quest’anno fosse caldo. Senza giri di parole e sorrisi di circostanza, senza mezze misure. Però caldo. Perché caldo non vuol dire soltanto calore temporale, sole o mare o tutto ciò che ci sta attorno. No, di quello non mi frega niente.
Lo voglio caldo come il letto quando mi svegliavo da bambino.
Voglio togliermi il pensiero di domani, di quando guardi il cielo e non ci senti niente, se non il clacson delle macchine o la suoneria dei cellulari.
Cielo grigio chiama amore infame. Risponde il niente.
Lunghi giri di ritorni e andate senza ritorni e ritorni dal niente, nel vortice complesso di un completamento lento. La quotidianità, il parente, il viso amico, lo specchio.
Dove sono quando guardo fuori dal finestrino? Ora mi sono perso in queste strade, cerco la scia di qualche tram, ma non riconosco nessun volto.
Forse un guidatore, a volte un passante distratto, ma nessuno riconosce me.
Attimo di smarrimento, mi rimetto in ordine. E’ Natale. Voglio il caldo.
In lontananza vedo dei vecchi avvicinarsi, l’ombra curva e il passo lento. Sono i miei nonni, sono proprio loro, sono qui per il Natale…più si avvicinano più cresce l’emozione, più si avvicinano più sale la frustrazione. Non possono essere loro, loro sono morti anni fa.
Senza dirmi il motivo, se ne sono andati insieme al calore di cui avevo bisogno.
Eccomi lì, fermo a metà via, da una parte una fermata dei mezzi pubblici che porta chissà dove e dall’altra una coppia di vecchi che non conosco, ma avrei voluto conoscere.
L’indecisione mi porta ad esitare, salgo sopra al primo mezzo disponibile, sguardo basso, rincorro primavere. Guardo fisso dal finestrino, che tengo aperto per rimanere sveglio e non addormentarmi.
Respiro l’aria fredda che schiaffeggia il volto.
In strada accanto ad una rete vedo un padre coi suoi figli intenti a guardare gli aerei che decollano. Quelli che atterrano, quelli fermi. Ricordo quando da bambino andavo al Parco con mio padre e mio nonno, ma non piango, non mi commuovo.
Penso solo alla semplicità delle cose belle, al loro calore.
Scendo e sono in piazza buia di un posto che non so dov’è, cosa sia. Di sicuro non ci sono mai stato, non è casa mia.
Scendo e mi guardo attorno, tutta ha la sua dimensione e sembra continuare a vivere nonostante la mia presenza sia invasiva, fuori luogo.
Tutto ha il suo senso pur con la mia presenza. Ricomincia un vortice nella mia testa.
Non fa caldo, non è Natale, ma io lo voglio caldo lo stesso.

giovedì, novembre 11, 2010

La funzione del ricalcolo

E’ la dignità di un vecchio il punto di arrivo. Passando dal passeggino alla sedia a rotelle che accompagnerà i miei ultimi giorni. La saggezza del vecchio come guida nel momento del bisogno avanzando ciecamente verso la conquista di qualcosa, anche di un banalissimo stipendio.
Anni di call center, di copia incolla e fotocopie. Ho perso giorni fondamentali della mia vita ascoltando insistente il rumore di una fotocopiatrice, anni ’90, generazione cresciuta nel vuoto più totale. I giovani italiani che non leggono più, i quotidiani che non vendono più.
La crisi della carta stampata non è data da motivazioni ecologiche, ma culturali.
Generazione ai raggi X, sempre appresso ai mille euro, raggiunti a 28 anni e forse persi molto presto. Mi sembrava che non fosse vero. Tutti questi soldi per me? Ma veramente?
Anni ’90 calcolati ancora in lire, perché oggi per noi tutto vale il doppio.
Dal titolo di studio alla proposta lavorativa.
“Apprendi da apprendista e forse tra qualche anno avrai modo di trovare un posto fisso per arrivare al tuo sogno di pensione”.
Apprendi coglione e sogna la pensione.
Tempo di calcoli per arrivare a fine mese, per la spesa del sabato e la cottura del surgelato, stando attenti a non scontrarsi col carrello pieno, si collezionano gratitudini come quando eravamo bambini con le figurine. Ringrazia chi ti fa lavorare, chi ti dà da mangiare, chi ti fa respirare. Non pensare a chi ti fa emozionare. A cosa è emozione.
Pensa, sogna, vivi, desidera una vita in monodose.
Calcola bene le risposte e i tempi di rimozione forzata dal posto in cui ti trovi, tieni sempre libero il tuo spazio. Facendo bene attenzione a non toccare chi ti sta vicino, senza correre il rischio di conoscerlo.
Perché col tempo si riesce sempre a trovare qualcuno in grado di prendere il tuo posto, il tuo tempo e la tua dimensione. Tempo del ricalcolo, per rivedere la posizione da assumere.
Per decidere se vale la pena andare o se non è meglio tornare indietro, che tanto chi ce lo fa fare di rischiare. Ho già la cena pronta e il letto fatto, un lavoro, una donna e il cane mi corre incontro appena mi vede sul vialetto della mia villa privata.
Apprendo fermo il modo in cui muovermi, osservo il movimento del vento tra le foglie, resto rapito dal suo colore, così forte e così trasparente e resto fermo. Senza cambiare modi e posizioni. Come il Natale che sta arrivando, quello che se n’è andato, quello che stiamo vivendo. Sottosopra. Ricalcolo, stop emozionale. Sono pronto per partire senza sapere dove cazzo andare.

**scritto una sera, qualche tempo fa, forse se ne farà qualcosa altrimenti si darà al gatto

venerdì, novembre 05, 2010

Consolatevi del vostro pianto

Mi scordavo ripetutamente che si muore continuamente. Ogni giorno un pò alla volta. Di giorno e nelle notti e a poco a poco che si staccano anche gli ultimi capelli.
Mi dimenticavo quotidianamente di dire le mie preghiere e metter l'anima in pace, pensando che un futuro me lo sarei garantito con un fondo pensione.
Era il 2001 ed ero a Roma, primo maggio, concerto. Tanti i giovani in Piazza e si parlava di una guerra civile ignota, quella che ogni anno porta via mille lavoratori italiani e non, in Italia. Perlomeno questi sono quelli che ci vengono dichiarati.
Quelli che ci vengono detti.
Non ci pensavo allora, non ci pensava mia madre. Non ci avrei mai pensato sino al momento in cui l'avrei vista, così immediata e risolutiva.
Come tutti e non meno di nessun altro, mi sono sempre speso tra i bassi voti a scuola, gli amici, il piacere per le donne e le bevute. Chi potrà mai togliermi i miei momenti, i miei successi e gli insuccessi. Le vacanze, i tanti primi baci e l'abbraccio di chi ti accetta soprattutto per i mille difetti.
Le chiamano morti bianche, come i teli nei quali si è avvolti dentro una bara che non serve a niente, per quelli che riescono a finirci dentro. Le lacrime dei parenti, qualche articolo di giornale, il politico che parla e per me, niente.
Finirono le scuole e come previsto, nessuna voglia di Università o studi privati, volevo i soldi subito, volevo il lavoro quello vero, che nobilita. Come mio padre e mio nonno. Un posto da operaio oggi, carriera sicura nell'azienda del paese domani. Operaio specializzato ora e capo fabbrica domani. Così mi sarei pagato le rate per la macchina nuova, comprato quello che volevo, portato in pizzeria le mie belle senza farle pagare.
Ogni anno i morti sul lavoro sono un inno al cambiamento sociale che non avviene. Precari, muratori, agricoltori, militari, lavoratori a cottimo, portuali, stronzi, negri, italiani...tutti dentro un'invisibile bolla di sapone che sfugge anche alla più precaria forma di giudizio. L'indignazione perenne che non ha mai prodotto nulla, se non parole di conforto per le famiglie. Le altre vittime di tutto questo.
In fabbrica vengo accolto bene dal gruppo, ci sono altri giovani come me ma io sono quello "nuovo" cui insegnare i segreti; i vecchi mi consigliano, scherzano, mi prendono in giro per i miei racconti sulle donne, le ubriacature...come fossi il gioco nuovo, lo scotto dell'ultimo arrivato.
Sanno di chi sono figlio e chi era mio nonno, sanno che di me si potranno fidare.
I capi si vedono poco, gli storici fondatori han dovuto vendere a un'impresa straniera, dicono siamo parte di una multinazionale. Non so bene, lo stipendio arriva, mi basta alle mie piccole cose, le 8 ore, gli straordinari in nero. La fatica si sopporta a fine mese.
Ogni tanto vengono i sindacati a dire che non siamo a norma, vogliono i controlli, ma mi è stato consigliato di lasciarli stare, di non ascoltarli. In fondo non mi rendo conto di cosa stiano dicendo.
L'Italia è un paese sito nel centro dell'Europa. Il Diritto al Lavoro fa parte della Costituzione e il lavoro deve (dovrebbe) essere sicuro. Deve (dovrebbe) essere ben retribuito ma il tasso di crescita delle retribuzioni è inversamente proporzionale alla crescita del costo della vita. I nostri governanti ci consigliano di andare all'estero. Forse è chiedere la normalità è troppo.
I turni sono impegnativi e pesanti, otto ore e strordinari. Servono, mi dico. Per la vacanza in Grecia, per i cerchi in lega della macchina. Servono e basta, cazzo.
Poi quella notte il lampo. Ho visto il volto dei più vecchi preoccupati, nella stanza dove c'erano due colleghi, uno scoppio, fiamme. L'istinto di fuggire, andare via, le gambe che tremano. Poi ho visto padri di famiglia buttarsi dentro senza pensarci per aiutarli, per tirarli fuori. Non ci ho pensato su, mi son buttato dentro e poi niente.
Io sono morto voi siete vivi, non ve ne siete accorti.
Così al mio funerale non voglio partecipare. Lascerò tutti voi vicini, l'un l'altro.
Consolatevi del fatto che non ci sarò, dei vostri pianti, delle mie tante lacune lasciate.
Se lo vuoi sapere il Paradiso non esiste è soltanto un'idiozia di qualche stronzo.
Lascio il tempo alla parole dei soliti benpensanti e il mio ricordo a voi.

Morto 879 di quasi mille, anno solare 2010. Dopo Cristo, ovviamente, il tuo.

martedì, novembre 02, 2010

Magari è il contrario

...se la fine fosse fatta da più puntini di sospensione e se nulla avesse una fine grazie a questi puntini, con la continua ricerca di un qualcosa che non c'è, ma che tu rincorri solo per svegliarti al mattino, per vedere le farfalle volare...
...giro e incontro angoli nascosti che non hanno un senso, un come o un dove. Appena incontro lo specchio le chiedo cosa vuole, appena tocco cibo riprendo le mie forse. Ora tutto ha puntini di sospensione, potrei anche sbagliarmi, ma niente è al punto di cottura se non i miei anni migliori.
Dovrei iniziare a copiare cose fatte da altri o trovare progetti conclusi, non da me. Si pur iniziare da qualcosa...
...forse inseguendo tratti di musiche conosciuti, ecco cosa farò. Inseguo fantasmi musicali ai quali applicare parole a caso, nate dai nostri mille discorsi. Non importa se l'aria la paghi a peso o se le scarpe siano bucate, il riscaldamento è partito, iniziato. Arde. Bruciano i puntini nel loro essere sospesi. Forse andando troverò la musica guida, forse cambiando marciapiede, forse...
...forse dovrei assumere droghe, bere sempre di più, farmi crescere la barba e gridare in faccia ciò che penso. Farmi prendere per folle, un pazzo visionario. Riprendere il progetto del chiosco disperso nel nulla, riprendere le idee, disegnare i contorni. Pitturare il salotto. Ora esco e mi metto a fischiare, se ne ho voglia anche a cantare...