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martedì, ottobre 23, 2012

Non chiedere a un degente di scalare una montagna

Stanco per quei pomeriggi al vento, senza una dimora per la nostra testa. Qualche giorno aspetto ancora mio nonno all'angolo di via Tolstoj, attendendo che mi chieda se voglio che mi porti lo zaino, dopo la scuola. Risentito rispondere che ce la posso fare da solo, che sono grande ormai. Ma in cuor mio felice di questa attenzione, che me lo chieda. Che sia lui a chiedermelo.
Perchè non mi mancano le attenzioni, quelle non le ho mai cercate e quando mi servono me le vado a prendere. Erano quelle attenzioni e quelle parole, quei discorsi.
Quel dire grazie senza aprire bocca, quel cercare il suo assenso nel mio non fare niente.
Stanco per quel troppo parlare, con la pancia all'aria e il divertimento tra le mani. Passare inosservati nel parco della propria zona, con la birra fredda in mano e pensieri caldi in testa, sentirsi vecchi a diciottanni, a diciannove, a venti. Passare il tempo a stringere i pugni e pensare lontano, faremo i cantanti, gli attori, gli operai. Ma resteremo amici e forse non lo siamo più. Non lo siamo più tutti i giorni, non lo siamo più nel fare i compiti insieme e nel parlare di ragazze. Non lo siamo nel sognare in futuro di cambiarci il presente. Ma quando ci si rivede, alla minima cazzata c'è lo sguardo, quello sguardo che ti svolta il momento. L'attimo. Torna quella panchina, tornano le mezzore passate in auto a discutere sul testo della canzone degli Afterhours e quelle spese in cui da mangiare non c'era un cazzo, ma l'alcol era sempre troppo, eppure non bastava mai.
Stanco di andare sempre a capo quando quello che vorrei scrivere dovrebbe stare sulla stessa riga, per non confondere chi legge e lasciar la mente verso lontane distrazioni. Correre su un campo, sporcarmi le scarpe, insegnare il poco che ho imparato. Non dirmi altro, spezzami le aspettative ma lascia l'idea che possa crescere tra l'erba marcia. Non ho mai pensato di avere una testa sana, nemmeno quando mi avevan detto che non sono scemo. Era mio padre o forse un suo amico, eran belle parole ma le presi come una buona notte. C'era gente che piangeva per molto meno, io in mezzo alla gente piango solo per i goal di Milito e i pugni al cielo, pensando a come è stata dura crescere a Milano per un interista.
Stanco per le coperte corte e i riscaldamente accesi, le vite accese da uno sguardo nuovo e la televisione che accompagna la giornata di qualcuno senza aggiungere niente se non la consapevolezza che è bel soprammobile. La produzione odierna regala il futile, la maggior parte dei lavori non produce nulla di concreto, ci avevate mai pensato? web, spettacolo, facebook, promozione. Niente ha più a che fare con la fabbrica, il turno, il materiale, il campo. A volte ho la sensazione di non fare un cazzo e altre volte è proprio così. Leggere Pennacchi mi ci ha fatto pensare. Leggere la mia carta di identità mi ha dato conferma.
Stanco del sole del mare del cielo delle panchine delle birre a metà e di quelle intere. Come quando per non sapere nè leggere nè scrivere decidevo da solo cosa sarebbe stato di tutti noi. Disegnavo i futuri e scrivevo i passati. Inventavo anche super eroi con i rasta e i capelli cromati. Dicevano fossi creativo e son passato a farmi fare i tatuaggi per non reggere troppa pressione. Ma alla fine c'è sempre un inizio e un inizio termina in una fine. Come un cerchio o un circuito. Una vita e non una spirale.
Farsi male e rotolare sull'erba e guarire per rotolarci ancora.
Adesso mi fermo un pò qui, son stanco per vincere o perdere una partita. Son stanco anche di stare in panchina e non lo so. Aspettare il tram mi da sempre un pò fastidio, magari arrivo all'angolo e aspetto mio nonno che venga a prendermi dopo la scuola, ma forse arriverà prima il tram.
Ci potrei scommettere.

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